Nizza, una scia di sangue in «asimmetria»

by Tommaso Di Francesco, il manifesto | 16 Luglio 2016 9:02

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Sembra un videogioco, invece è la scia reale di sangue che non si ferma. Ancora è colpita la Francia, ma le vittime non sono solo francesi. Donne e uomini in fuga in una sera d’estate sul sereno lungomare di Nizza, la Promenade des Anglais (quella del famoso quadro di Matisse). Una strage di civili, almeno, 84 i morti, tanti bambini tra le centinaia di feriti molti gravi. Ad opera di un giovane presunto integralista islamico di 31 anni, Mohamed Lahouaiej Bouhlel. L’uomo, francese d’origine tunisina, sposato in via di divorzio e con tre figli, era solo, senza complici, con una pistola automatica ma con tante armi giocattolo al seguito, l’unico strumento micidiale di morte vera che aveva era un Tir, guidato a tutta velocità per seminare morte e terrore; era stato in carcere, luogo delegato alla formazione ideologica, conosciuto dalla polizia era in libertà vigilata perché condannato per violenze. Possiamo definire questo spostato sociale un attentatore? Purtroppo sì: è questa endemicità, «normalità», permeabilità e mimesi la nuova caratteristica di chi compie, dall’interno, attentati anche senza una specifica matrice islamista. E anche stavolta, non è difficile immaginare, non mancherà la rivendicazione dell’Isis.

Ora il rischio è che, come sempre, si rincorrano chiacchiere e menzogne. Che fare? In che cosa dobbiamo investire? Come militarizzare la sicurezza – Hollande indebolito ancora una volta per i buchi nel controllo della zona nonostante lo stato d’emergenza, mobiliterà migliaia di risdervisti. E chi c’è dietro? Fioccano i paragoni. Alcuni, impropri, con le autobombe; altri, più insidiosi, con le macchine lanciate da giovani palestinesi contro civili israeliani. Certo gesti condannabili e sanguinosi, ma lì c’è una violenta occupazione militare, e i cacciabombardieri israeliani e i tank Markhava sono parecchio più devastanti di un Tir.

Qual è il punto? L’Occidente, i Paesi europei e gli Stati uniti devono, al contrario di quello che hanno fatto finora, disinvestire nella guerra se vogliono dare sicurezza e non solo il miraggio della «percezione di sicurezza» con i presidi militari nelle città europee. E insieme aprire una nuova fase di integrazione con le realtà musulmani esistenti e finalmente con la nuova dimensione dell’immigrazione. Almeno come inveramento necessario di quella rivendicazione di «libertà, eguaglianza, fraternità» che ogni 14 luglio ritualmente viene ricordata, come giovedì sera a Nizza. Accade invece che confermiamo le divisioni, la frattura tra mondi, chiedendo fedeltà ai cittadini europei di fede musulmana. Dando così ragione alla predicazione del jihadismo salafita che vive di rotture e ostilità. Perché – al contrario della civiltà – è la guerra che abbiamo esportato che è all’origine di questa scia di sangue. E la Francia è stata protagonista negli ultimi anni di tutte le imprese belliche: geopolitiche in Libia e in Siria, neocoloniali in Africa.

Urge dunque una svolta nella politica estera occidentale che, volta a volta, ha usato una realtà mediorientale contro l’altra per raggiungere l’obiettivo del controllo strategico della regione, sia prima che dopo la Guerra fredda. Senza soluzione di continuità. Una piccola prova? Tra le motivazioni della strage, se di motivazioni si può parlare, viene ricordata la perdita di territorio e le sconfitte che lo Stato islamico sta subendo in Siria, Iraq e Libia. Ma per uno stato virtuale come il Califfato, la cui sostanza è predicatoria (di odio e barbarie, basta vedere il trattamento riservato alle donne) le sconfitte sono un appello ulteriore alla solidarietà jihadista, perché non più foreign fighters ma si attivino azioni «interne al nemico». Ma i colpi subìti possono essere cogenti: in questi giorni è stato ucciso da un raid aereo americano Omar al Sishani (il Ceceno), il capo militare Isis in Iraq e numero due del Califfo Al Baghdadi. Bene, questo assassino, conferma l’intelligence americana, ha ricevuto il suo addestramento proprio dagli Stati uniti che nel 2008 lo hanno usato in Georgia nella guerra attivata dalla Nato e dallo scellerato premier Shahakasvili contro la Russia.

Non possiamo pensare di avere sicurezza se esportiamo l’insicurezza della guerra, se distruggiamo Stati decisivi per l’equilibrio di interi continenti, come abbiamo fatto con Iraq, Siria e Libia. E se sosteniamo lo jihadismo per destabilizzare altri paesi come per la Siria. Alleandoci con chi ha foraggiato anche per nostro conto i jihadisti, come Turchia e Arabia saudita; con Israele che cancella la questione palestinese; con l’Egitto di Al Sisi, al potere con un golpe sanguinoso, che vive grazie ad una pratica sistematica di violenze e sparizioni.

Ora basta. Se giustamente non possiamo più accettare che le nostre comunità siano colpite così, allora smettiamo di distruggere le altre comunità ormai senza più pace. A Baghdad – dove dilaga il conflitto tra sciiti e sunniti – c’è una strage di Bologna al giorno. Eppure era una «missione compiuta» già nel 2003 per il presidente Usa George W. Bush. All’epoca c’era con lui, tra gli altri, anche Tony Blair, condannato oggi a parole dalla pur blanda ma vera commissione Chilcot: almeno in Gran Bretagna alla fine giudicano chi fa le guerre.

L’attentato di Nizza dopo il Bataclan, Bruxelles e San Bernardino negli Usa dicono che dobbiamo uscire dal videogioco al massacro.

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