Se l’Inps dice il vero a fine anno avremo valori negativi

by Roberto Romano, il manifesto | 30 Luglio 2016 17:00

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Il paese merita un presidente del consiglio come Renzi? È possibile capovolgere il senso delle statistiche sul lavoro, tra l’altro ancora provvisorie? Possiamo associare il Jobs Act al rango di politica economica? Per quanto tempo ancora sarà possibile raccontare la storia dell’Italia che «cambia verso», quando il Paese è uscito dai così detti paesi innovatori a partire dall’introduzione del Jobs Act?

Solo per dare una idea, la mitica Lombardia è uscita dal radar delle regioni innovative europee, ma questa notizia non è stata commentata da nessuno.

Da poco l’Inps ha consegnato al Paese un mercato del lavoro disarmante: finiti gli incentivi le assunzioni crollano. La crescita degli occupati del 2015 e 2016 per il periodo gennaio-maggio, mostrano chiaramente quanto assurdo sia il Jobs Act e quanto le imprese italiane, fuori dal contesto europeo da tempo immemore, siano interessate al solo costo del lavoro. Nel 2015 (gennaio-maggio) gli occupati legati agli incentivi sono aumentati di 380.000 unità; non appena nel 2016 sono stati dimezzati gli incentivi, cioè quando il Jobs Act in senso stretto è diventato operativo, il numero di posti lavoro sono diminuiti verticalmente (meno 95.000 unità).

C’è qualcosa di non detto o forse una speranza nelle dichiarazioni del presidente del consiglio: al Paese bastano e avanzano le misure di flessibilità del mercato del lavoro per uscire dalla crisi. In altri termini lo Stato deve solo tagliare la spesa, ridurre i vincoli e perseverare nella fiducia. La politica economica fa acqua da tutte le parti, ma non possiamo recedere dalle misure intraprese. C’è sempre una scusa per giustificare i deludenti risultati del governo. Adesso la crescita diminuisce per colpa della Brexit, ma la crescita dell’Italia non solo era già in caduta libera, ma rimane lontana dalla media europea.

A giugno i nuovi occupati sono stati 71mila, i disoccupati 27mila e gli inattivi sono calati di 51mila unità? Ma guardiamoli con attenzione e misuriamoli con i risultati di altri Paesi. Il tasso di occupazione al 57,3%, un punto in più rispetto allo scorso anno, non è solo molto più basso della media europea, almeno 10 punti percentuali, ma sfugge che in molti paesi europei sono stati raggiunti i livelli pre-crisi da tempo.

In termini assoluti negli ultimi dodici mesi i nuovi occupati sono stati 329mila, a fronte di un calo degli inattivi di 325mila persone e una riduzione dei disoccupati di 140mila unità. Sono informazioni non omogenee. Infatti, l’aumento considera anche gli incentivi dell’anno scorso, cioè il campione di riferimento non è certamente omogeneo. Se sono vere le informazioni dell’Inps, a fine anno troveremo dei valori negativi, ma a quel punto ci costringeranno a discutere d’altro, tipo una legge di stabilità che taglierà le agevolazioni per i redditi più bassi – tax expanditure – e ulteriori tagli di spesa per non meno di 15 mld di euro legati agli inefficaci e deludenti risultati dei provvedimenti adottati nel 2015. La disoccupazione aumenta, gli occupati aumentano di poco (71.000 e non di 300 mila e passa di Renzi). Rimangono 7 milioni le persone che non lavorano in Italia. I giovani fuggono dall’Italia perché troppo preparati rispetto alla domanda delle imprese.

Con questo ritmo di crescita, ci vogliono non meno di 10 prima di raggiungere i livelli pre-crisi. Chi lo dice a Renzi? Ma c’è un aspetto ancora più pericoloso: se il Pil non cresce, ma allo stesso tempo aumenta di un poco l’occupazione, vuol dire che creiamo lavoro povero, cioè si conferma il ritardo di struttura dell’economia nazionale rispetto a quella europea.

C’è qualcosa di malato nella politica economica del governo. Ogni giorno la statistica ci ricorda che il paese è lontano dalla uscita dal tunnel della depressione, ma basta uno 0,000 per raccontare che è finita la discesa negli inferi. Occuparsi di lavoro non significa limitarsi alle politiche del lavoro; occorre una prospettiva di politica economica in cui coordinare diverse politiche pubbliche per governare il cambiamento (dal credito, alla ricerca e sviluppo, dalle strategie industriali, al sociale).

Tutto questo emerge dagli insegnamenti di un maestro dell’economia politica formatosi tra gli allievi di Keynes, Pasinetti: «Se il sistema economico è in grado di portare avanti con successo una redistribuzione settoriale dell’occupazione da settori in declino verso settori in espansione, il profilo del progresso tecnico, del reddito, anche del fattore lavoro, tenderà a essere virtuoso nel lungo periodo». In attesa che Padoan ricordi tutto ciò al governo, rimane il disarmo della ragione.

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