WASHINGTON In principio fu un megafono. Alla fine ci sono soltanto bugie, morti e reputazioni in rovina. All’inizio di tutto fu l’altoparlante di plastica impugnato da George W. Bush dal quale promise vendetta alla folla attonita raccolta attorno alle rovine calde delle Torri Gemelle. Alla fine c’è l’umiliazione di Tony Blair e c’è la resa di Barack Obama, che rinuncia al ritiro delle truppe dall’Afghanistan e manda rinforzi per puntellare il simulacro di stato iracheno in guerra contro l’Is. Son quindici anni di morti, tra Afghanistan e Iraq, di devastazioni, menzogne, errori e conseguenze impreviste, sul conto di uomini diversissimi fra di loro eppure intrappolanti dalla storia nel labirinto dove l’America non sarebbe mai dovuta entrare.
Fu da quel banale megafono a batterie da assemblea studentesca che George W. Bush pronunciò per la folla che piangeva vendetta il 14 settembre del 2001, le tre parole fatali che avrebbero costruito la trappola: «I hear you!», gracchiò dal megafono, vi sento. Oggi invece Obama parla — calmo, sonoro e solenne — da microfoni professionali per conferenze ufficiali. Ma cambia la scenografia del messaggio, non la sostanza: il labirinto che Bush costruì per se stesso, inventato per debolezza, per impreparazione, per soggezione dei cardinali della guerra come Dick Cheney e Donald Rumsfeld che lo circondavano, umiliando il glorioso Colin Powell con un’esibizione di fandonie davanti all’Onu, («la minaccia irachena»), resta chiuso anche per Obama.
Dall’Afghanistan, invaso per rovesciare i Taliban, e dall’Iraq, travolto per dare la caccia ad arsenali e terroristi che non c’erano, l’America non sa uscire. E Obama si rimangia alla fine dei due mandati le promesse di “tutti a casa” che aveva fatto per essere eletto nel 2008: in Afghanistan dovrà lasciare 8.400 soldati, contro i 5.500 che aveva promesso. Un segno di fallimento inequivocabile.
Bush non ha vinto la “Guerra al Terrore”. Obama non è riuscito a concluderla. I regimi sono saltati facilmente, come volevano la tragica dottrina dei “neo con” appollaiati sulle spalle di George “Dubya” e la loro allucinazione del “Nuovo Secolo Americano”, ma se qualcuno è uscito meglio dalla guerra al terrore, questo è il terrore.
E tutto risale a quel mattino del 14 settembre, sulle macerie ancora realmente calde e tossiche del World Trade Center, quando Bush — il Presidente Accidentale, il ragazzone texano che la maggioranza degli americani non aveva affatto vota- to e che soltanto l’arcaico sistema elettorale e una sentenza della Corte Suprema avevano paracadutato alla Casa Bianca nel 2001 — fece con la nazione il patto di sangue del quale, 13 anni dopo, Obama l’utopista della “mano tesa” all’Islam nel discorso del Cairo, ancora è prigioniero.
Fu quello il momento trasformativo della storia di un secolo XXI ancora breve ma già tanto pesante, della presidenza e di un uomo come Bush jr. che tutto avrebbe voluto meno che condurre la sua nazione in guerra («useremo la forza solo se i nostri interessi nazionali saranno direttamente minacciati», aveva detto) o come Obama, che ben altro finale avrebbe sognato per la propria avventura piuttosto che un’escalation di truppe in Afghanistan e spedizioni di altre “forze speciali” in Siria e Iraq, prove del fallimento.
Due leader che arrivarono entrambi totalmente impreparati a vedere il mondo “seduti alla scrivania dello Studio Ovale”, come oggi ripete Obama spingendo Hillary al suo posto, giustamente terrorizzato alla prospettiva che uno sbruffone da reality tv, ancora più digiuno di strategia e di geopolitica del suo predecessore, come Trump possa sedersi al comando della più formidabile forza militare che il mondo abbia mai veduto. Forza che è, nonostante leggi inefficaci, uno strumento a disposizione del “commander in chief”. Di chi siede su quella poltrona.
Obama, come scoprì Bush nel suo secondo mandato, ha potuto toccare le due realtà contraddittorie della presidenza: la tentazione della forza e i limiti della superpotenza. Il presidente ancora in carica per sei mesi ha vissuto la frustrazione della prudenza, il prezzo delle esitazioni, la responsabilità dei fallimenti che sempre si arrampicano fino a chi siede alla scrivania, senza poter scaricare sui predecessori le colpe. Bush provò l’ebbrezza opposta, il brivido del temporaneo assolutismo creato dagli shock nazionali, che lo portarono a un intossicante 80 per cento di popolarità, nei primi mesi della “Guerra al Terrore”.
Quanto Obama è stato il “trascinato” dagli effetti del disastro, in Libia come in Siria, tanto Bush ha creduto di poter essere il “trascinatore”, il pilota della storia. Ha ignorato i rapporti che, sul suo tavolo, nell’agosto 2001, avvertivano di prossimi grandi attacchi terroristici. Ha seguito la rotta scavata dai suoi “consiglieri”, Cheney e Rumsfeld, che dal Pentagono ignoravano le analisi della Cia, condotte dall’ambasciatore Joe Wilson, marito di una funzionaria dell’agenzia, che non aveva trovato tracce di materiali radioattivo acquistato da Saddam in Niger. Preferendo le assicurazioni del direttore della stessa Cia, George Tenet, quello che garantiva il ritrovamento di arsenali facile «come una schiacciata a basket». Costringevano i servizi di intelligence più fedeli e gli analisti di comodo — in una Washington dove le agenzie di spionaggio e i think tank sono più numerosi dei buoni ristoranti — a smentire la Cia e la Nsa, a dubitare dei rapporti degli ispettori inviati dall’Onu che tornavano dall’Iraq senza avere trovato tracce di armi biologiche o atomiche. A fidarsi di noti truffatori internazionali come Ahmed Chalabi, che prometteva insurrezioni ed eserciti di partigiani iracheni. E a nominare come zar dell’Iraq Paul Bremer, lo sciagurato che, autorizzato dai boss nella capitale — Cheney, Rumsfled, Powell, Condi Rice, Wolfowitz — sciolse il partito di Saddam, il Baath e l’esercito. Lasciando disoccupati e senza futuro migliaia di funzionari, ufficiali, tecnici, scienziati che sarebbe diventati i quadri della violenza sunnita e poi dello Stato Islamico del Califfo Al Baghdadi. Avendo a disposizione gli armamenti.
È l’impotenza della Superpotenza, che pure già gli Usa avevano sanguinosamente sperimentato nel Sudest Asiatico, e l’ubriacatura di una forza inadatta a combattere e vincere guerre asimmetriche dove il nemico morde e fugge con sandali o pick-up, nascondendosi nella giungla o nel deserto, mimetizzandosi fra i civili, colpendo a piacere con disprezzo della proprio e altrui vita.
Bush e Obama sono sprofondanti insieme nella stessa palude, trascinando, in effimere “Coalizioni di Volenterosi”, gli alleati più ossequiosi come Blair o Berlusconi, accorsi a versare un tributo di sangue altrui in cambio di pacche sulle spalle. Ora Obama si dedica ad aiutare Hillary, lasciandole un’eredità velenosa, prima di concentrarsi sulle immancabili memorie, e Bush passa il tempo dipingendo ritratti naif di cagnolini e di celebrità nella sua villa di Dallas, ormai innocuo. Non andrà alla Convention di Trump a Cleveland fra dieci giorni, non è stato invitato, come già non fu invitato da Romney quattro anni or sono, persona non grata, ritratto coperto dal drappo nero nella galleria dei presidenti repubblicani. Per lui, ma non per l’America e per le nazioni arabe risucchiate nel gorgo creato con quel grido dal megafono, la “Missione è compiuta”. E fallita.
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