Dobbiamo scrivere di quello che significa vivere in questo nostro tempo

by Orsola Casagrande e J.M. Arrugaeta, Global Rights 2/2016 | 30 Luglio 2016 7:00

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Paul Murray è nato a Dublino nel 1975. Ha scritto tre romanzi,  An Evening of Long Goodbyes, Skippy Dies [in italiano, Skippy muore, 2013, ISBN edizioni] e The Mark and the Void (Hamish Hamilton). Vive a Dublino. Abbiamo conversato con lui pochi giorni dopo il referendum sul Brexit vinto dai sostenitori del “Leave” (cioè coloro che volevano che la Gran Bretagna uscisse dall’Unione Europea).

 

Paul è praticamente inevitabile, anche visto il contenuto del tuo ultimo romanzo, The Mark and the Void, chiederti un commento sul l’esito del Brexit…

Incredulità, stupore, orrore. Fa paura, davvero. Credo che nessuno si aspettasse davvero quello che è successo. Mi ha ricordato di quando GW Bush è stato rieletto nel 2004. Mi ricordo di essere andato a letto quella sera con nelle orecchie tutti i sondaggi ed exit poll che davano per certa una sconfitta di Bush e al mattino dopo ci siamo ritrovati in una nuova era Bush. La stessa sensazione l’ho provata con il Brexit: siamo andati a letto con l’ormai ex Primo Ministro inglese, David Cameron e tutti i commentatori che dicevano che “Remain” (il gruppo che sosteneva la permanenza nella UE) avrebbe vinto e al mattino dopo ad avere vinto erano stati i sostenitori del “Leave”. E’ strano perché la maggior parte delle volte sento una certa affinità con il resto della razza umana, sento che più o meno siamo tutti alla stessa pagina, ma con il Brexit mi sono reso conto che onestamente non capisco cosa voglia la maggior parte della gente e che cosa pensa succederà. Questo risultato avrà inevitabilmente ripercussioni economiche serie in Irlanda, dato che la Gran Bretagna è il maggior partner commerciale. E’ davvero una situazione terribile. Fa paura vedere tutta questa gente di destra, come Trump negli Usa, e tutti questi movimenti di estrema destra che continuano a prendere piede in Europa. La gente si sta in un certo senso ritirando in se stessa e in questa sorta di primitivo, folle mito nazionalista. Se guardiamo alla Seconda Guerra mondiale, per esempio, ci chiediamo come possa essere accaduta, perché non ha senso. Ma oggi stiamo assistendo a una cosa simile: stiamo scivolando verso qualcosa che non ha senso. Eppure questo processo non si ferma, sembra che non ci sia nessuno con la volontà di fermarlo.

 

Passiamo alla letteratura. Che cosa pensi della scena letteraria irlandese attuale?

Credo che sia decisamente più vivace di quella del boom economico. La scena letteraria è stata sempre abbastanza ricca in Irlanda, ci sono stati sempre un numero di buoni e nuovi scrittori. Ma durante la Tigre Celtica, tra il 2001 e il 1007, sono emersi molti meno scrittori, il che è strano per molti versi. Penso che praticamente chiunque aveva trovato un lavoro, c’erano così tanti soldi e opportunità, che anche gli scrittori che difficilmente fino a quel momento erano riusciti a gestire molti aspetti della loro vita anche materiale, eccetto scrivere, improvvisamente si sono trovati a portata di mano lavori lucrativi. Così durante il boom c’erano un sacco di soldi e lavoro: è stato un periodo strano e davvero non-irlandese, in tutti i sensi, soprattutto a livello letterario e culturale. Durante quel periodo, di fatto, abbiamo smesso di produrre cultura e cominciato a produrre dei vuoti e terribili simulacri. L’Irlanda ha cominciato a produrre gruppi di ragazzini, come la band Boyzone o West Life che fecero un gran successo, ma quando vedi i loro video in internet ti rendi conto che sono l’esperienza culturale più vuota che ti puoi immaginare. Hanno addirittura utilizzato una canzone dei West Life come forma di tortura dei prigionieri, se non erro, in Guantanamo Bay. Tutto questo per dire che in tempi di avversità e problemi economici si produce, così pare, buona letteratura e culturale, idee eccitanti e gente che genuinamente pensa a come relazionarsi alla realtà. Cose che non accadono durante i periodi di vacche grasse in economia. Questo è quello che stiamo senza dubbio sperimentando in questo momento in Irlanda: ci sono molti ottimi autori in questo momento. C’è una scrittrice, Lisa McInerney, che ha vinto di recente due importanti premi letterati, e poi ci sono Colin Barrett e Kevin Barry, per citarne solo un paio. Quello che mi piacerebbe vedere nella letteratura irlandese, tuttavia, è un po’ più di coinvolgimento politico. E’ molto complicato scrivere di politica e in un certo senso si suppone che gli scrittori non lo facciano, ma come diceva George Orwell: Credere che la politica non ha un posto nell’arte è di per sé una dichiarazione politica. Sembra che questa dichiarazione politica sia stata presa alla lettera da molta gente. Molti dei libri che escono e che sono ambientati in questo paese, sono in un certo modo nostalgici, non si parla molto di tecnologia o globalizzazione ed è un po’ frustrante per me perché se vivi in Irlanda – e tu ci hai vissuto – sai che l’Irlanda è un paese estremamente globalizzato, un paese molto aperto, dove tecnologia, valute straniere, investimenti stranieri e questo genere di cose sono estremamente potenti qui e sono il reale motore che guida tutto ciò che sta succedendo nel nostro paese. Ecco perché mi piacere vedere nella letteratura un po’ più di coinvolgimento, di relazione con queste voci che ci stanno spingendo e facendo muovere anziché vedere il perpetuare di una illusione di soggettività per cui siamo tutti individui che cercano di andare avanti con la loro vita.

 

Addentrandoci un po’ nella tua letteratura. Come è quando hai cominciato a scrivere?

Suppongo quando ero molto piccolo. Mio padre è un docente universitario, ora in pensione, di teatro irlandese e la casa è sempre stata piena di libri e io, mio fratello e mia sorella stavamo sempre leggendo. Scrivere storie era in qualche modo la naturale continuazione della lettura, così direi che scrivere è qualcosa che ho sempre fatto. Confesso, comunque, di essere leggermente sorpreso di poter vivere con la letteratura. E’ una grande posizione in cui stare.

 

Perché un romanzo sulle banche? Come è nata l’idea di The Mark and The Void?

In due fasi, direi. Nel 2002 mia sorella ottenne un lavoro alla Banca delle Bermuda che aveva aperto una sede a Dublino (ora non esiste più, assimilata da un’altra banca più grande). Non avevo mai sentito nominare la Banca delle Bermuda, ovviamente, e mi pareva piuttosto divertente che esistesse una simile banca, perché avevo sempre associato le Bermuda al famoso Triangolo, quel luogo stregato dove gli aerei sparivano… ricordo che mi sembrò un pessimo luogo per aprire una banca! Dunque, non sapevo che cosa fosse una banca di investimento e cominciai ad indagare e cominciai a scrivere un libro comico, con una semplice idea comica al centro. La storia era quella di un banchiere che incontra uno scrittore. Il banchiere che si considera una persona estremamente noiosa che fa un lavoro estremamente noioso, è in realtà un individuo sensibile e intelligente, mentre lo scrittore, che dovrebbe essere sensibile e intelligente, è in realtà un essere noioso e odioso. Ho cominciato a scrivere questo libro nel 2002 e ci ho lavorato su per circa sei mesi. Poi però ho smesso perché non ero molto soddisfatto con quel lavoro. Così l’ho messo nel cassetto e ho cominciato a scrivere un’altra cosa. Nel 2009 però ho ritirato fuori quel manoscritto ed evidentemente il significato di banca era completamente diverso da quello che era nel 2002. Le cose terribili che le banche avevano fatto stavano cominciando a venire alla luce, tutte quelle frodi e meccanismi perversi, come il default, stavano venendo a galla. Improvvisamente mi è sembrato un mondo molto più interessante sul quale scrivere, interessante in particolare perché la peculiarità dell’Irlanda è che è un paese molto piccolo dove i grandi avvoltoi convergono in maniera aperta e evidente.

 

E dove la globalizzazione è estremamente “visibile”…

Senza dubbio. Storicamente la chiesa cattolica è sempre stata una forza molto potente in Irlanda e così l’Impero britannico, l’altra grande forza di questo paese. Queste due forze si sono combattute anche culturalmente, specie negli ultimi 80-90 anni. Ma negli ultimi 20 anni sono entrate in scena nuove forze, le forze della globalizzazione, le enormi multinazionali americani che hanno aperto il loro business qui in Irlanda, primariamente considerata dagli USA una porta verso l’Europa e secondariamente, e forse più importante, un luogo dove possono lavare i loro panni sporchi, dove possono svolgere le loro attività illegali. Anche perché possono contare su un governo irlandese compiacente che ha deciso di guardare dall’altra parte. Così l’Irlanda è un paradiso fiscale e il centro di quello che si chiama shadow banking. Tutte queste banche possono rendersi invisibili. Questo concetto mi risultava molto interessante anche perché si permetteva nel mio paese, il paese in cui sono cresciuto. Il paese, l’Irlanda, che sempre si rappresenta come un luogo di autenticità, un luogo dove la gente è onesta, decente… e invece è divenuto un luogo per tutta questa serie di complesse e astratte meta-banche… Mi risultava poi interessante da un punto di vista metaforico, perché tutto ciò ha a che vedere con la de-realità. Queste banche, infatti, si de-realizzano per poter de-realizzare i soldi e la loro provenienza. Un modo per rendere tutto invisibile e pulito. Credo che questo avesse a che fare con l’Irlanda sia perché queste banche erano approdate qui con i loro denari, ma anche perché in parte questa è la direzione in cui sta andando la società del XXI secolo in tutto il mondo occidentale: stiamo vivendo in questo mondo sempre più de-realizzato dove comunichiamo sempre meno tra noi e viviamo invece nei nostri schermi, in questo ambiente strano, pulito, antisettico dove non dobbiamo più avere contatto con la gente o quasi. Tutto ciò mi sembrava interessante e inquietante: anche in un paese come l’Irlanda che è un piccolo paese dove tutti si conoscono. Eppure, allo stesso tempo, si può avere una società che si aliena e dove tutti diventano soli perché non si parlano tra loro, occhi fissi allo schermo del cellulare, tutto il giorno. Per questo volevo scrivere di tutto ciò, mi sembrava importante farlo.

Conosci uno scrittore che si chiama Ben Lerner, l’autore di Leaving the Atocha Station [2011, Coffee House Press]? Bene, c’è una recensione del suo libro scritta da James Wood e pubblicata sul The New Yorker. Wood dice che questo è un romanzo pieno di delusioni e auto-delusioni. Lerner sta cercando di restaurare l’individuo di fronte al momento. Leggi il libro e dici a te stesso: wow, sto vivendo nel momento… l’aria è fresca, l’erba verde e la pietra… pietrosa… Wood dice che questa è un’idea nostalgica dell’esperienza che non è più il modo in cui opera. Non viviamo più il momento, perché il momento non esiste più in realtà al di fuori della tecnologia, nel modo autonomo e indipendente in cui esisteva. Credo sia una cosa complicata da fare, è difficile scrivere di tutto questo, ma credo che dobbiamo provarci, dobbiamo provare a rappresentare che cosa significa essere vivi adesso, in questo tempo, altrimenti rischiamo di produrre pezzi nostalgici, pezzi storici che sembrano abbastanza inutili.

 

Assolutamente, ma allora la prossima domanda è se senti di appartenere ad una generazione. O per dirla meglio: ci sono luoghi, spazi dove si possa discutere e scambiare idee come queste con altri scrittori o artisti? Perché l’altro problema che ci sembra di rilevare è questo: gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori sembrano non avere luoghi dove incontrarsi e discutere.

Questo è molto vero, è una questione molto interessante. Credo che la risposta breve sia no, io non parlo di queste questioni con altri scrittori. Immagino che questo tipo di tematiche risultino interessanti a me, ma magari non ad altri. Per molti versi la narrativa irlandese è retorica, a volte formalmente sperimentale, ma è spesso – per esempio se paragonata alla narrativa americana – naturalistica diciamo così. In Irlanda parliamo più dei soldi o della mancanza di soldi e di quanto siamo preoccupati della prossima scomparsa dei libri. Libri di tecnologia, sulla natura o sui vampiri che in dieci anni non ci saranno più e la gente starà scopando il cellulare o chissà cosa farà. Ho un caro amico che insegna inglese a York ma ha studiato economia. Quando stavo scrivendo il libro, visto che viene a Dublino due volte l’anno, mi vedevo con lui e i suoi amici e avevamo queste incredibili conversazioni sull’economia, la letteratura, la filosofia. Però la scrittura è soprattutto un’attività solitaria. L’Irlanda in particolare, e sono un po’ titubante a lamentarmi dell’Irlanda ma forse più che una lamentela quello che sto per dire è una richiesta. L’Irlanda ha una gran paura dell’intellettualità. La parola intellettuale qui è quasi un insulto, a differenza, sospetto, di quello che accade a Cuba o in Italia. Ci sono pochi scrittori qui che verrebbero indicati come intellettuali. Non so bene perché, ma una delle cose peggiori che si possono fare qui in Irlanda è dare a uno dell’intellettuale. Se uno parla con conoscenza di causa, in maniera informata immediatamente viene etichettato come “un saccente”, ecco intellettuale è uno che “fa sfoggio della sua conoscenza”. Per questa ragione e perché gli scrittori irlandesi, e gli scrittori in generale, sono gente piuttosto solitaria, è molto difficile trovare spazi per discutere di questi temi. Detto questo, c’è una grande scena letteraria in questo momento in Irlanda. Ci sono molti scrittori nuovi interessanti il che significa che ci sono anche molti dibattiti, reading e incontri. La maggior parte sono in generale una sorta di tortura, vuoti e superficiali… però a volte capiti a incontri molto interessanti, discussioni sullo scrivere un libro, per esempio, e in quei momenti senti che scrivere un libro è ancora qualcosa di importante.

 

Parliamo dei tuoi riferimenti letterari e culturali…

Quando ero al college, a metà degli anni ’90, mi piaceva moltissimo tutto il giro di registi indipendenti americani, Richard Blinklater, Steven Soderbergh, Hal Hartley, Gus Van Sants, David Lynch… tutti importanti per me. Musica… Nick Cave e esperimenti interessanti come i Kurt Vail. Ascolto musica tutto il giorno. The Script è una band che mi piace, interessante il loro concetto musicale. Mi piacciono i Rachels, musica molto romantica ma anche freaky e strani.

Parlando di letteratura, sicuramente il primo nome che mi viene in mente è Thomas Pynchon. E poi Don De Lillo: sto leggendo in questo periodo il suo ultimo libro, Zero K, veramente un gran bel libro. Leggo moltissimo e cose differenti. Leggo molta filosofia, ma lentamente. Mi piacciono Anna Ferrante e David Foster Wallace e il giro post moderno americano. Mi piace la letteratura irlandese chiaramente, da Joyce a Yeats e, venendo ad autori più contemporanei, Anne Enright e Eimear McBride. Poi mi piace il mio amico Neel Mukherjee, uno scrittore con cui sono stato al college e che ha scritto un libro intitolato The Life of Others [2014, Chatto&Windus], un libro potente.

 

A cosa stai lavorando al momento?

Sto lavorando ad una sceneggiatura. E’ la prima volta che scrivo una sceneggiatura e sta andando abbastanza lentamente, in realtà. E’ completamente differente dall’esperienza di un libro, e per questo, immagino, sta andando più lentamente. Mi piace, comunque: in un film, ogni momento deve avere una ragione, un motivo per esserci e questo mi dà la sensazione di andare un po’ contro la mia maniera abituale di lavorare. Normalmente quando scrivo non penso che necessariamente tutto quello che scrivo debba avere una ragione per esistere. Ho imparato molto cose sulla struttura del testo per esempio da questa esperienza e sarò comunque contento di tornare a scrivere libri. Ho diverse idee in testa, ma non so ancora quale prevarrà.

 

Quest’ultima osservazione ci porta a chiederti se nasce prima la storia o i personaggi?

In genere tutto comincia con un’immagine, o con una frase che mi viene in mente e che diventa la prima frase di una storia. Nel mio libro Skippy Dies, mi ero immaginato due ragazzini mangiando un doughnut e una scena.

In The Mark and The Void, l’idea del personaggio era lì, insieme a questa strana idea dell’esistenza di una Banca delle Bermuda, con queste persone intelligenti che facevano questo lavoro deviante, inutile e anche assurdo. Pensavo che l’idea di un bancario poetico fosse buone. Insomma, c’è un’immagine, e l’immagine contiene un personaggio e quindi se l’idea è buona, secondo la mia definizione di “buona”, darà vita a nuove idee…

Iniziare a scrivere un libro è la parte migliore, in un certo senso, perché non devi fare quasi nulla: ti siedi rilassato e il tuo inconscio ha già lavorato per te dietro le quinte e si tratta in definitiva di raccogliere quel lavoro. Ti metti lì e scrivi tutte lo cose che cadono dal cielo. Uno ha sempre l’idea in testa di scrivere questo mega-romanzo, un super romanzo dove tutto in qualche modo si incastrerà perfettamente. Però poi ti rendi conti che sei un mortale e il tuo libro è enorme e che dovrai selezionare e decidere quello che va e quello che non va così la gente potrà leggere una storia e non un mattone di 15 mila pagine!

 

Un’ultima cosa, una curiosità: abbiamo letto che qualcuno ha scritto una canzone, ispirato da un tuo libro. Raccontaci…

Sì, sì, è vero. C’è questa musicista incredibile, si chiama Lisa Hunninghan [www.lisahunningan.com] che ha scritto una canzone, Home, ispirata da Skippy Dies. Il suo nuovo album, At Swim, uscirà a settembre. Di recente mi sono convertito in giornalista musicale e le ho fatto un’intervista, molto interessante, una gran musicista.

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