Politiche europee anticrisi, l’irrazionalità al potere

by Susanna Ronconi, Rapporto sui Diritti Globali 2015 | 17 Luglio 2016 17:48

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 Le dinamiche della spesa sociale, quelle delle povertà, le scelte dell’austerità: l’Europa si trova a un punto morto, in cui la crescita stenta, la domanda interna è bloccata e l’ultima bolla, quella cinese, rivela tutta la debolezza di uno sviluppo incentrato su esportazioni esposte ai rischi delle crisi globali. Felice Roberto Pizzuti, economista, curatore del Rapporto sullo Stato sociale, che ogni anno traccia il ritratto degli esiti sociali, economici e finanziari delle scelte politiche comunitarie e nazionali, mette a nudo le contraddizioni insanabili del modello dell’austerità, cui la governance europea ha inchiodato il continente. Contro ogni evidenza e ragionevolezza.

 

Rapporto Diritti Globali: Lei ha invitato, nel suo Rapporto 2015, a diffidare dei dati sulla spesa sociale europea, perché dietro i numeri si annidano quelle che ha definito “illusioni statistiche”. In effetti, a leggere le tabelle e le serie storiche di Eurostat, la spesa sociale in tutte le sue componenti – assistenziale, previdenziale, sanitaria – appare in crescita percentuale sul PIL, ma poi, a una diversa e attenta analisi dei dati nazionali, i tagli drammatici al welfare si vedono e si leggono. Come dobbiamo interpretare allora questi dati?

Felice Roberto Pizzuti: Ho parlato di illusioni statistiche riguardo la spesa sociale perché, se si leggono gli andamenti della spesa in rapporto al PIL, come normalmente si fa, quando il PIL diminuisce per ragioni diverse, allora il rapporto spesa sociale/PIL a sua volta aumenta, ma non perché sia aumentata la spesa, bensì perché è diminuito il denominatore, il PIL appunto. In una fase come quella che ha preso inizio nel 2007-2008 in Europa e in particolare in alcuni Paesi come l’Italia, questa illusione copre il fatto che la spesa sociale non sia affatto aumentata. Se leggiamo i valori della spesa pro capite, che non risente del denominatore, cioè del PIL, a livello di Europa dei 15, fatto 100,9 il 1998 – il primo anno di rilevazione – nel 2012 è dell’88,8, dunque in deciso e costante calo. In Italia, fatto 100 il valore europeo, era 90 nel 1998 e 74,8 nel 2012, dunque valori più bassi della media europea e in calo. Tra le diverse voci della spesa sociale, un calo sensibile a livello europeo ha riguardato la spesa pensionistica, in tutti i Paesi la percentuale di questa spesa sul totale è diminuita sensibilmente.

 

RDG: La spesa italiana ha delle particolarità, rispetto alla spesa media europea? Si parla per esempio di una più alta quota percentuale della spesa per le pensioni a discapito di altre voci, come sostegno alla famiglia o all’abitazione. È effettivamente così?

FRP: Si parla sempre della più elevata spesa pensionistica italiana, ma è un dato che va ridimensionato, perché in parte frutto di una disomogeneità statistica nel confronto tra Paesi. Nella spesa pensionistica italiana, infatti, Eurostat insiste nell’inserire voci che poco hanno a che vedere, come il TFR, per esempio, che non è spesa pensionistica e nemmeno pubblica, e che incide per almeno un punto e mezzo. Va tenuto presente anche che per tutti i Paesi la spesa pensionistica viene calcolata al lordo delle spese fiscali, ma per Paesi come la Germania non c’è differenza tra lordo e netto, perché le spese fiscali vengono calcolate in altra parte del sistema pensionistico, e dunque in questo caso il raffronto tra Italia e Germania è falsato. In Francia, per esempio, le pensioni sono tassate con aliquote molto più basse. Tutto questo porta a una sovrastima relativa della spesa pensionistica italiana, la nostra non è una vera anomalia, tenendo conto di tutto questo, la distanza con la Germania e la Francia non è così eclatante. La vera anomalia e la vera disomogeneità della spesa sociale italiana sta prima di tutto negli ammortizzatori sociali, che assorbono una fetta significativamente più bassa, e sicuramente la spesa per la casa, che in Italia è praticamente inesistente. C’è poi una significativa inferiorità della spesa sanitaria, più bassa della media europea e molto più bassa di quella di Paesi come Francia e Germania. Quindi, considerando che noi abbiamo una spesa sociale complessiva più bassa della media e che quella pensionistica sta più o meno in linea con la media, tutta la differenza in negativo si concentra su housing, ammortizzatori e sanità, per non dire del reddito minimo che non esiste. Differenza negativa decisa, se ci si riferisce alla spesa pro capite.

 

RDG: Rispetto alle politiche di welfare, alla lotta alla povertà, al sostegno al reddito qual è il suo giudizio su come si sta muovendo il governo Renzi? Ci sono delle innovazioni positive, e in generale cosa si può dire sulla strategia che emerge dalle scelte governative?

FRP: Sullo specifico delle misure di sostegno al reddito non si può dire nulla, non mi risulta che vi siano state iniziative, se ci saranno vedremo. Sono state annunciate anche da consulenti del governo misure sul sistema previdenziale, ma spero che non siano vere… Si parla, infatti, di ridurre fino a sei punti la contribuzione previdenziale, ma stante che oggi i punti sono 33, fare questo significa ridurla di circa il 20 per cento, una cosa di dimensioni epocali. Tanto più che già ora il sistema pensionistico è proiettato verso una situazione di grandi carenze: se il sistema rimane intatto com’è oggi, nel giro di uno o due decenni matura una vera e propria bomba sociale, con una minoranza di pensioni in grado di garantire la sussistenza. Questo se nulla cambia, ma se addirittura dovessero ridursi i contributi, con sei punti di contribuzione in meno, allora si è destinati a pensioni molto al di sotto della sopravvivenza. Speriamo dunque che le anticipazioni circolate quest’estate siano frutto del caldo di agosto e non trovino un seguito.

 

RDG: Nel suo Rapporto ha ricordato che, nonostante i numeri crescenti della povertà, l’Italia continua a non adottare alcuna forma di reddito minimo, unico Paese europeo insieme alla Grecia. Al contempo, dall’Europa, anche tramite le Raccomandazioni agli Stati sulla implementazione della strategia Europe 2020, arrivano pressanti inviti a rendere questa misura, laddove esiste, più restrittiva. Che considerazioni si possono fare sugli orientamenti italiani e comunitari nell’ambito del sostegno al reddito dei più fragili?

FRP: Ci sono indicazioni comunitarie sul contenimento dei costi per questa misura, ma da noi al momento il costo è zero… e quindi intanto dovremmo pensare a istituirne una. Credo che il nostro attuale zero investimenti nel reddito minimo sia insostenibile, socialmente, certo, ma anche economicamente, perché una forma di sostegno a chi non ha nulla credo che sia necessaria se non altro a fermare la catena di eventi che si può creare e degenerare, portando a problemi via via più gravi e onerosi. D’altro canto, siamo in un sistema produttivo che crea pochi posti di lavoro, ci sarebbe bisogno di più domanda interna e da questo punto di vista l’investimento in un reddito minimo garantito potrebbe aiutare. Credo però al tempo stesso che non potremmo nemmeno portare questi assegni di reddito minimo vicino ai livelli dei redditi da lavoro, perché se non lavorando si guadagna quanto lavorando si creano poi problemi nel mondo del lavoro. Penso che sarà necessario trovare una misura che sappia muoversi tra i vincoli di queste diverse esigenze, tenendo conto del fatto che se è vero che un aumento della spesa per un reddito minimo potrebbe stimolare la domanda, è anche vero che bisogna tener conto – e aggiungo purtroppo – dei vincoli che ci vengono posti dall’Europa: bisognerebbe avere la forza politica di dire non sto ai vincoli che mi poni e faccio un altro tipo di politica economica… ma se dentro quei vincoli stai, e vuoi spendere per il reddito minimo, ti trovi a dover spendere di meno per altro. In ogni caso, credo che la situazione com’è oggi sia insostenibile e che i vincoli imposti dalla politica europea di austerità siano in tutta evidenza controproducenti. Andrebbe aperto un ragionamento radicale e di inversione di tendenza della politica comunitaria, ma qui entriamo in un mondo complicato… Ormai è passata la teoria del trade off, welfare contrapposto a crescita, che è sbagliato e fuorviante, perché c’è invece una chiara complementarietà

 

RDG: In effetti, un’analisi degli esiti delle politiche di austerità e dei tagli al welfare rende esplicito il fallimento di tale impostazione, a cominciare dall’esperienza greca dopo i Memorandum della Troika. Ma questa ormai chiara evidenza, secondo lei, può portare a una progressiva inversione di tendenza nelle politiche comunitarie?

FRP: Non c’è nessuna legge divina che ci costringa a praticare questo tipo di politica, che la Commissione e le autorità economiche dell’Unione Europea stanno imponendo in modo anche più insistente da quando la crisi è iniziata. Ormai le analisi teoriche e le ricerche empiriche hanno ampiamente dimostrato di come sia sbagliato insistere su misure di austerità in ambito di crisi, oggi siamo in una situazione di completa irrazionalità della politica economica. Lo stesso Fondo monetario ha recentemente ammesso queste contraddizioni. Tuttavia, nel mondo non sempre prevale la razionalità, come la storia ci insegna. Questa è la situazione, e non è il problema che non ci sono i margini per cambiare; al contrario, ci sarebbe l’ovvia e conclamata necessità di farlo. Gli Stati Uniti, un Paese non certo rivoluzionario, pur nell’ambito di una stessa visione, sono stati assai più pragmatici, con una politica economica e una politica fiscale molto più espansive, e i risultati in termini di crescita si sono visti. Per altro, questo è ciò si insegna nei libri di testo, come si dovrebbe fare… In Europa c’è invece questo equivoco dell’austerità, voluta dal punto di vista dominante della Germania e dai suoi alleati del centro Europa, che sta imponendo una politica economica del tutto controproducente. La stessa esperienza greca, evidentemente, ha voluto essere una dimostrazione nei confronti di tutti gli altri Paesi, l’accordo su un nuovo prestito alla Grecia copre una cifra di 86 miliardi, che è un decimo di quanto le borse europee hanno bruciato dopo la crisi cinese nell’agosto 2015: allora diciamo che stiamo parlando di cifre irrisorie, che servono solo a imporre una visione dominante. Detto questo, perché non si cambia? Ma perché politicamente chi comanda ha deciso che si continua così. Anche se – e non serve arrivare ai contenuti dei movimenti più radicali – lo stesso Fondo Monetario ha riconosciuto che l’obiettivo di raggiungere un effetto espansivo grazie all’austerità – la famosa austerità espansiva, cosa che a mio avviso è un ossimoro – è fallito, è una baggianata. Lo sapevamo anche prima, ma ora lo sappiamo anche empiricamente: con l’austerità non solo il PIL non cresce, ma peggiorano anche i dati fiscali, perché se il PIL non cresce diminuiscono anche le entrate fiscali e il bilancio pubblico peggiora. Sono pertanto politiche negative sia per la crescita sia per il riequilibrio fiscale; anzi, gli effetti negativi si cumulano, tant’è che i bilanci pubblici in Europa sono peggiorati. Sono dati inequivocabili. L’unica speranza è che prima o poi prevalga la forza della ragione.

 

RDG: A proposito di dati e interpretazione dei dati, le povertà in Italia stando alle statistiche appaiono in crescita ma modestamente, soprattutto la povertà relativa. Anche su questi dati c’è da indagare e ci sono illusioni statistiche?

FRP: La povertà relativa è in crescita. Notoriamente è calcolata sulla base dei redditi e chi sta su una soglia inferiore al 60% della linea mediana è povero, è un indicatore che risente delle diseguaglianze di reddito, se tutti avessero lo stesso reddito nessuno sarebbe al di sotto della mediana. E siccome in Italia la diseguaglianza è aumentata, e lo è in misura maggiore di quanto non lo sia a livello europeo, anche per questo abbiamo un aumento sensibile della povertà relativa, anche questa superiore alla media europea. Anche più decisa la crescita della povertà assoluta, secondo anche gli indicatori europei di deprivazione, dalla crisi a oggi sono valori in crescita in tutta l’Unione.

 

RDG: Tornando alla questione degli scenari futuri relativi al welfare, lei ha sollevato la questione del pilastro privatistico, soprattutto inerente la previdenza e le pensioni, da un lato auspicandone il permanere in un ruolo di integrazione e non di sostituzione del pilastro pubblico, dall’altro lato, anche mettendone in luce alcuni attuali limiti e difetti. E a questo proposito ha lanciato la necessità di un Piano di riordino complessivo. Può parlarcene?

FRP: Rispetto ai fondi pensione privati, oggi accade che questi portino una buona parte delle risorse all’estero, dove rendono di più e ci si è pertanto posti il problema di un piano che faccia sì che il risparmio pensionistico privato resti in Italia e venga investito nello sviluppo del Paese. L’idea è quella di un tavolo dove lavoratori, imprese e Stato concordino una gestione delle attività finanziarie dei fondi capace di convogliarle verso investimenti, magari concordati, su innovazione, infrastrutture sociali e produttive; insomma, quegli investimenti che in Italia sono carenti e limitano il substrato dell’attività produttiva. Oggi i fondi privati in Italia sono molto limitati rispetto ad altri Paesi, e comunque giocano un ruolo economico molto contenuto se confrontato a come operano in Olanda o Regno Unito, proprio perché prendono il risparmio e lo portano all’estero, e questo non fa bene al nostro sistema produttivo. Ma questo accade anche perché le borse italiane e il nostro sistema non offrono investimenti come la City inglese o la borsa di Francoforte, o Wall Street, anche perché le nostre imprese sono spesso piccole, familiari, poco quotate in borsa; da noi, allora, i fondi pensione privati stanno svolgendo un ruolo di spinta verso la fuoriuscita dei capitali. Detto questo, e detto che si può migliorare, il secondo pilastro privatistico della previdenza deve restare aggiuntivo e non sostitutivo di quello pubblico, le sue dimensioni attuali non andrebbero aumentate troppo, pena il rischio non solo dell’uscita del risparmio ma anche delle conseguenze della gestione a capitalizzazione, legate alle dinamiche delle borse. In una fase come questa, si legano le prestazioni a rendimenti spesso molto instabili, e un conto è un rischiare per un risparmio generico, un conto è rischiare per la previdenza: si va in pensione a una certa età e ci si va non per scelta ma per legge, e se si va in pensione in un momento in cui le borse stanno come sono state durante la recente crisi cinese, la pensione sarà molto diversa da quello che ci si poteva aspettare magari anche solo un mese prima. Non si può legare la sorte degli anni del pensionamento, che sono anni delicati, a fatti così congiunturali con variabilità molto accentuata. Per questo il privato deve essere aggiuntivo, il pubblico ha fino a oggi assicurato un livello di copertura diciamo almeno decente. La tendenza negli ultimi anni, invece, è stata quella di una crescita della componente privatistica, anche se la situazione è oggi molto fluida: da una parte, la crisi ha portato a una riduzione del numero di iscritti e ha ridimensionato nel complesso il settore, ma dall’altra parte le proposte che circolano di riduzione della contribuzione previdenziale pubblica spingono verso nuovi investimenti privati.

 

RDG: Chiudiamo con le prospettive all’indomani della crisi cinese: possiamo assimilare questa nuova crisi a quella del 2008? E le ricadute sull’Europa quali saranno?

FRP: Il contesto cinese è molto diverso da quello occidentale. Negli ultimi anni in Cina sono riusciti a portare avanti un processo di accumulazione forzosa molto spinto, hanno il problema di tener insieme i mercati con una grande pianificazione statale, e tuttavia ci sono almeno un paio di elementi in comune tra le due crisi. In Cina lo sviluppo si è basato su una politica dei salari molto bassi e sull’esportazione come sostitutivo di una domanda interna, e questo è condiviso dalle politiche dei bassi salari in Occidente negli ultimi decenni e, in Europa, con un modello guidato dalle esportazioni; pensiamo a quello tedesco. Questo modello – contare poco sulla domanda interna a causa di bassi salari e puntare tutto sulle esportazioni – è fallace, perché non tutti i Paesi possono pensare che la loro produzione sarà acquistata dagli altri. Per un certo tempo è sembrato che il grande sviluppo cinese potesse attutire la crisi europea, soprattutto i tedeschi hanno contato molto su questa domanda cinese, però mentre si riduceva la domanda complessiva europea per la crisi, si riduceva anche quella verso la Cina e la Cina, anche per questo, si è ritrovata in una situazione critica, e, a sua volta, si è accorciata la coperta che i cinesi offrivano agli europei e soprattutto ai tedeschi. Ora c’è una cumulazione e un’interazione reciproca di elementi di crisi, il che è ciò che normalmente succede nelle crisi globali, solo che fino a pochi mesi fa si parlava di crisi globale unicamente per l’Occidente, America, Giappone e Europa. Invece, anche i BRICS hanno ridotto fortemente la loro crescita, e adesso anche la Cina, che credibilmente entro il 2015 andrà sotto il 5% di crescita, dal 14%. Oggi la Cina risente della crisi occidentale, ma ribalta a sua volta sull’Occidente altri elementi di crisi. In Europa chi governa deve farsi una ragione del fatto che se non aumenta la domanda interna l’impatto sarà grave, a meno che non si pensi che una nuova domanda possa arrivare dalla luna…. Questa è l’ennesima situazione che dovrebbe spingere l’Europa a mettersi davanti allo specchio e chiedersi razionalmente cosa farsene di questa politica dell’austerità.

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