Stop TTIP. L’Europa degli affari e quella dei cittadini

Stop TTIP. L’Europa degli affari e quella dei cittadini

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2015)

Il TTIP, uno dei più grandi trattati di libero scambio mai negoziati, è al centro del dibattito politico e sociale di mezza Europa. Potrebbe determinare cambiamenti sostanziali nella struttura stessa dell’economia europea, consolidando un modello di sviluppo che ha contribuito alle crisi sistemiche a cui stiamo assistendo ormai da quasi un decennio. Come leggere ciò che accade, a cosa fare attenzione e, soprattutto, cosa c’è in gioco sono alcune delle questioni che abbiamo posto alla portavoce della Campagna italiana contro il Trattato Transatlantico, Monica Di Sisto, vicepresidente di Fairwatch.

 

Rapporto sui Diritti Globali: Cominciamo con una domanda secca: ma l’Europa ha veramente bisogno del TTIP?

Monica Di Sisto: I cittadini europei sicuramente no, il nostro ambiente tantomeno e nemmeno l’economia: si prevede uno 0,48% annuo di aumento del PIL europeo, medio e dal 2027, ma che ci costerebbe la riduzione potenziale della nostra capacità di mettere in campo regole migliori per il nostro benessere. Non mi sembra, ragionevolmente, un buon guadagno. La Commissione, però, sembra essere messa sotto pressione crescente da molti leader e forze politiche europee – in particolare tra le file dei popolari e dei socialdemocratici, Italia in testa – che stanno trasformando il TTIP in una sorta di referendum sull’Europa. Nel nostro Paese va anche peggio: assistiamo a una sorta di presunta partita di calcio, dove la concretezza del negoziato, i dati delle valutazioni d’impatto, gli stessi interessi delle imprese passano in secondo piano rispetto a mantra che dice: «chi si oppone al TTIP vuole che l’Italia perda delle occasioni»; o, peggio, «il mercato statunitense è troppo importante per l’Italia». Come se gli Stati Uniti non fossero già, senza scomodare il TTIP, il nostro principale mercato di sbocco dopo quello europeo. E come se gli ostacoli al commercio non potessimo già risolverli senza TTIP presso l’Organizzazione Mondiale del commercio, la WTO, che ha questo compito e dove Stati Uniti ed Europa, da membri fondatori, sono andati a regolarsi i conti già molte volte in passato. In questa atmosfera da stadio, le criticità sollevate da esperti e movimenti vengono trattate come paturnie da romantici, e non come questioni decisive rispetto ai pesanti impatti che settori produttivi strategici per l’Italia, a partire dall’agricoltura, potranno subire.

 

RDG: Chi critica le campagne Stop TTIP afferma che sottovalutate il potenziale positivo di innalzamento degli standard, anche ambientali, che il trattato potrebbe avere. Come risponde a questa obiezione?

MDS: La risposta è di logica: un trattato di liberalizzazione commerciale per sua natura è finalizzato a massimizzare gli scambi; in quell’ottica, tutto quello che li limita, anche se a giusta ragione, è un ostacolo e va rimosso. Certo: se il TTIP contenesse un capitolo energetico che rendesse la scelta delle rinnovabili più economica ed efficiente, aiuterebbe. Ma, al momento, l’unica discussione concretamente sul tavolo è quella che riguarda l’accelerazione del commercio dei combustibili fossili. Se si ragionasse su come rendere più cari i prodotti più “sporchi” e più accessibili quelli “verdi” aiuterebbe. Nei primi 10 round negoziali, però, l’Europa ha chiesto di far ammettere le proprie imprese agli appalti dell’agenzia USA di protezione ambientale, ma non ha detto nulla, ad esempio, sulla qualità sociale e ambientale di quei prodotti e servizi che potrebbero essere immessi nei flussi transatlantici. Sarebbe interessante ragionare su una cancellazione dei sussidi ai combustibili fossili. Sarebbe bello vedere l’Europa offrire agli USA l’adeguamento dei propri impianti e trasporti agli standard sulle emissioni ultra-virtuosi dello Stato della California: ma nemmeno gli States li vogliono generalizzare in tutto il territorio federale. Stando così le cose, è abbastanza evidente perché il “TTIP positivo” è solo nei sogni di chi partecipa al fanta-derby cui accennavo, o nella retorica di chi fa finta che esista per interessi meramente di bottega.

 

RDG: Quali sono, allora, alcune delle vostre principali preoccupazioni per l’ambiente che hanno un fondamento nella realtà dei negoziati?

MDS: Anche in questo caso partiamo dai dati di fatto: l’International Chamber of Commerce ha certificato che l’Europa, su una scala da 0 a 6 per i Paesi più aperti al commercio internazionale, si colloca intorno al 4, mentre gli Stati Uniti sono intorno al livello 2. Quali sono, dunque, gli ostacoli (pochi) che restano sul cammino dei prodotti americani verso l’Europa? Essenzialmente, a livello ambientale, regole, standard e procedure che non ammettono gli OGM nell’alimentazione umana, sostanze chimiche che consideriamo pericolose, carburanti “sporchi”, prodotti irrispettosi delle nostre Indicazioni geografiche, certificazioni ed etichette che assicurano che alcuni prodotti e servizi siano sicuri come si suppone che dovrebbero, per chi li produce, li commercia, li consuma. Gli Stati Uniti stanno chiedendo all’Europa di allentare proprio gli standard sanitari e fitosanitari che non siano basati su “solida scienza”, quando sappiamo che loro considerano gran parte delle nostre regole in materia infondate. D’altronde, l’Europa nel recente accordo analogo concluso con il Canada si è impegnata nell’ “obiettivo condiviso” di ridurre al minimo gli impatti negativi delle regole sugli scambi, persino quelle riguardanti gli OGM, dando nei fatti priorità agli interessi commerciali rispetto all’approccio precauzionale delle norme comunitarie. Si prevede, infatti, che Europa e Canada lavorino insieme per promuovere processi di approvazione degli OGM basati sulla scienza ed efficienti per i prodotti della biotecnologia, mettendo in campo una «cooperazione normativa per ridurre al minimo gli impatti negativi sugli scambi delle pratiche regolamentari relativi ai prodotti biotecnologici».

È dall’ottavo round, inoltre, che gli USA stanno chiedendo con una certa determinazione all’Europa di intensificare la cooperazione in campo nucleare. Nonostante la competenza in materia non sia della Commissione, ma di Euratom, e che Euratom abbia già in essere una collaborazione con gli USA su questi temi, l’offerta iniziale europea sul capitolo “Servizi” escludeva, tra l’altro, che il TTIP potesse occuparsi di “trasformazione dei combustibili nucleari”, “estrazione di uranio e torio”, “generazione di energia nucleare”. L’Europa, però, ha comunicato di recente che è pronta a far cadere queste restrizioni se si introdurrà un capitolo specifico sull’energia nel TTIP, e sembra voler schiacciare l’occhio alla scelta fatta da Barack Obama, nel suo piano per l’energia pulita, di considerare il nucleare come una strategia efficace per la riduzione delle emissioni. È pure chiaro che chi vorrà introdurre una nuova regola ambientale o sociale, anche a buona ragione, che influenzi il commercio transatlantico, dovrà consentire all’altra parte di intervenire preventivamente, fare le proprie osservazioni, e non solo come Stato, ma coinvolgendo le parti interessate, cioè le proprie imprese che potranno far prevalere i propri interessi rispetto a quelli dei cittadini dell’altra parte.

 

RDG: Come valuta l’inserimento nel trattato di un capitolo sullo sviluppo sostenibile?

MDS: Pur essendo un capitolo che entrambi le parti dicono, a destra e a manca, di voler introdurre, il negoziato sullo sviluppo sostenibile non ha vita facile. In realtà, al momento si è discusso di molte cose utili ma di poco senso politico generale: ad esempio le “misure congiunte contro la registrazione o la pesca o il traffico di specie illecite in pericolo”. Tutto ciò è ovviamente importante, ma USA e UE non hanno bisogno del TTIP per metterci mano. Per fare un altro esempio concreto, in Europa è in fase di ratifica il Protocollo di Nagoya sull’Accesso alle Risorse Genetiche e l’equa condivisione dei benefici derivanti dal loro utilizzo, previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica. Gli Stati Uniti non sono parte di tale protocollo né, d’altronde, della Convenzione. Il protocollo protegge l’utilizzazione commerciale delle risorse biologiche e prevede la compensazione delle comunità “custodi” per il loro eventuale utilizzo: un’idea fortemente avversata negli Stati Uniti, nonostante la gran parte dei potenziali beneficiari si trovi in aree poverissime di Paesi spesso miseri. Appena messo sul tavolo del TTIP come argomento sul quale gli USA potevano fare qualche passo avanti, è stato ritirato dall’Unione Europea che lo aveva proposto e demandato a un successivo contatto tra funzionari, perché ritenuto dannoso per il resto delle trattative, tanto la reazione degli USA è stata volitiva a riguardo. Anche in questo caso, l’Europa è a un bivio: sostenere standard globali o unirsi agli Stati Uniti contro il resto del mondo. La terza via non è data, eppure è stata percorsa, proprio su proposta europea: rinunciare a entrare nei dettagli prima che il resto del trattato non sia abbastanza delineato. Si può fare meglio di così? È evidente che si deve. E se anche l’Italia svestisse la sciarpa del tifoso per rientrare nei panni della politica, potrebbe essere parte di quell’Europa migliore e responsabile che in questo momento sta provando a fermare TTIP, CETA e, più in generale, a ricondurre la globalizzazione alle logiche della tutela dei diritti.



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