Senza uguaglianza, non c’è democrazia. Assecondare le paure non costruisce speranza

Senza uguaglianza, non c’è democrazia. Assecondare le paure non costruisce speranza

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Intervista a don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera, a cura di Dina Galano (dal Rapporto sui Diritti Globali 2013)

Portavoce della Campagna “Riparte il futuro”, che in pochi mesi ha raccolto 160 mila firme di cittadini e 270 adesioni da parte di esponenti di tutti i partiti, don Luigi Ciotti è di nuovo in campo per una battaglia contro la corruzione che non ha mai abbandonato. «Ancora una volta dobbiamo dirci che la strada è in salita», afferma pubblicamente. Alla guida di Libera e Gruppo Abele, Ciotti è una delle figure più attente ai temi della giustizia sociale e dell’uguaglianza sostanziale e della responsabilità condivisa. La sua instancabile azione sul territorio e al fianco degli ultimi, ne fa un testimone prezioso.

 

Redazione Diritti Globali: Don Luigi, siamo al cambio di legislatura e, mai come ora, governa l’incertezza politica. Carcere, giustizia, antimafia sono alcuni dei temi passati in secondo piano ed espunti dai programmi elettorali. Quali sono oggi le urgenze della nostra giustizia da cui è necessario che la politica riparta?

Luigi Ciotti: Prima che di giustizia in senso stretto, è necessario prendersi a cuore il problema di giustizia sociale che affligge il nostro Paese e che è alla base della sua grave crisi economica. Ma giustizia sociale non significa altro che democrazia. A ricordarcelo è la Costituzione e in particolare il suo terzo articolo, dove si esorta a rimuovere tutti gli ostacoli di varia natura – economica, sociale, culturale – che impediscono un’effettiva uguaglianza dei cittadini. Senza uguaglianza, senza lo sforzo costante per affermarla, non c’è democrazia. È da qui che deve ripartire la politica, perché una politica che non vada in questa direzione semplicemente smette di essere politica: diventa potere. Ma, come non mi stanco di dire, il cambiamento non può essere delegato alla sola politica né alla supplenza di governi “tecnici” o di altro genere. Certo una guida ci vuole, possibilmente formata da persone animate da autentico spirito di servizio, ma al contempo è necessaria la corresponsabilità, il concorso e l’impegno di tutti.

La parola “crisi”, del resto, deriva dal verbo greco scegliere. La crisi arriva quando per troppo tempo non si sceglie o si lascia che siano gli altri a scegliere al posto nostro, così come dalla crisi non si esce senza scelte coraggiose, che impegnano l’integrità della nostra vita. Ben vengano allora le richieste di cambiamento e di rinnovamento della classe politica, la giusta domanda di una maggiore sobrietà e attenzione ai bisogni delle persone, così come è più che legittima l’insofferenza per certi linguaggi e certi meccanismi, come la legge elettorale, che impediscono ai cittadini di partecipare e di decidere. A patto, però, di mettersi in gioco tutti, in prima persona. Non c’è cambiamento che non chiami in causa l’etica, cioè i comportamenti di ciascuno di noi. Se c’è una cosa di cui non solo la politica ma l’intero Paese avrebbe urgente bisogno è una dieta della parola, di quella parola spettacolo – “talk show” vuol dire questo, in fondo – che per troppo tempo ha occupato la scena allontanandoci dalla realtà e dalla verità della vita.

 

RDG: Il governo uscente ha sostenuto un testo, il decreto anti-corruzione, che è stato approvato nel 2012 dal Parlamento con notevoli difficoltà. Si tratta, secondo molti osservatori, di un testo compromissorio che di buono ha soltanto l’intenzione originaria con cui era stato promosso. Che cosa manca a questa legge e cosa, invece, sarebbe opportuno chiarire sul tema della corruzione nel nostro Paese?

LC: Questa legge manca degli strumenti necessari a un contrasto davvero efficace al fenomeno. Introduce sì norme di prevenzione, ma non misure tali da disincentivare la corruzione, che allo stato attuale rimane un reato tutto sommato conveniente perché difficilmente porta a una condanna, che comunque prevede pene inadeguate. Il che vale per il corrotto come per il corruttore. Occorre quindi continuare sulla strada della prevenzione e della trasparenza, ma al tempo stesso rendere la corruzione “sconveniente” attraverso una disciplina efficace e in linea con gli standard europei. Questo significa: riforma della prescrizione, ripristino del falso in bilancio, introduzione dell’autoriciclaggio, potenziamento del whistleblowing (ossia le tutele per chi denuncia un episodio di corruzione), riforma del conflitto d’interessi, introduzione dei test d’integrità per politici e funzionari. E, soprattutto, rottura del legame che lega criminalità organizzata e parti della politica. È la corruzione che le tiene insieme. E per rompere il legame bisogna innanzitutto potenziare l’articolo 416 ter del codice penale, che disciplina lo scambio elettorale politico-mafioso. È anacronistico – e del tutto inefficace – limitare il reato al solo scambio di denaro, quando è noto che esso avviene anche attraverso altri canali: appalti, cariche, posti di lavoro, tutele di vario genere.

RDG: Negli ultimi tempi assistiamo a una lenta erosione dell’immagine e del valore della magistratura. Ci sono state manifestazioni di piazza e il livore mirato contro alcuni professionisti dello Stato. Ma nel 2012 abbiamo anche commemorato i vent’anni dalla strage di Capaci e le “Navi della legalità” hanno portato migliaia di ragazzi a Palermo. A suo avviso, sta cambiando la percezione che gli italiani, soprattutto i più giovani, hanno nei confronti della magistratura? L’immagine di Falcone e Borsellino è ancora ben salda nella mente di tutti noi o sta perdendo vigore?

LC: Quelle manifestazioni contro la magistratura sono l’esito di una strategia che parte da lontano. Dura da vent’anni la campagna contro i magistrati di chi avrebbe voluto governare forzando i limiti imposti dalla Costituzione, dimostrandosi un politico scaltro, spregiudicato e del tutto sprovvisto di spirito democratico. Mi auguro di cuore che quella stagione stia finendo, perché per troppo tempo un’intera nazione è rimasta appesa alle vicende e alle questioni giudiziarie di una singola persona e delle sue ambizioni di potere. Come mi auguro che chi ha appoggiato quella politica si renda ora conto, anche attraverso la crisi, quale panorama di macerie ci abbia lasciato in eredità. Quanto ai giovani, saranno pure inesperti, ma hanno fiuto, intuizione e un forte desiderio di autenticità. Sanno al volo distinguere tra un adulto appassionato e disinteressato, e uno che invece, dietro a modi di seduttore, mira solo ai propri interessi o alla propria immagine. Per questo amano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: vedono in loro non solo persone che hanno servito la comunità, ma che hanno agito animati da una più ampia idea di giustizia, legata alla libertà e alla dignità di un intero Paese, al suo riscatto sociale e civile. Ecco, credo che chi ha nel cuore questo ideale – e sono per fortuna molti, in Italia – non può che provare gratitudine per quei magistrati e senta il bisogno di impegnarsi a sua volta per realizzare il cambiamento che motivava le loro speranze e guidava le loro azioni.

 

RDG: Il Gruppo Abele è promotore, insieme a numerose associazioni, di tre progetti di legge di iniziativa popolare per restituire legalità alle carceri. Una di queste riguarda la modifica della Fini-Giovanardi sulle droghe e ha meritato la reazione dell’allora ministro Carlo Giovanardi che vi ha letto la volontà di liberalizzare le droghe. Perché occorre modificare quella legge e perché sarebbe bene farlo subito?

LC: Per la semplice ragione che quella legge è in gran parte responsabile, insieme a quella sull’immigrazione, della situazione disumana in cui versano le carceri italiane. Una legge di cui la stessa Corte costituzionale adesso valuterà la dubbia costituzionalità (a partire dalla sostanziale abrogazione della differenza delle pene previste per le droghe leggere e per le droghe pesanti, abrogazione che contraddice i principi di efficacia, proporzionalità e dissuasività stabiliti dall’Unione Europea in materia di stupefacenti). È dunque urgente cambiare la legge, come è urgente, però, tornare a occuparsi di droga non solo dal punto di vista giuridico ma da quello preventivo e educativo. La presunzione di sostituire il sociale con il “penale” non ha fatto che allargare le aree del disagio!

Ci sono forme di sofferenza che nascono all’interno della società e di cui la società tutta – a partire dalla politica – deve farsi carico, se vuole crescere, maturare, svilupparsi. Il problema è che in questi anni “crescita” è stata una parola sequestrata dalla dimensione etico-culturale per diventare ostaggio del lessico economico. Ci si è occupati di crescere solo in quel senso, come Pil, senza renderci conto che una ricchezza non distribuita, non adeguatamente destinata ai beni comuni ci avrebbe reso tutti più poveri e più fragili. Ecco allora che una nuova politica sulle droghe, così come misure più coraggiose ed efficaci per le nuove dipendenze che si vanno affermando – a partire dal gioco d’azzardo – devono inserirsi in un più ampio disegno di rinnovamento della politica come servizio alla persona. Altrimenti la pur necessaria riforma di certe leggi dissennate rischia di essere insufficiente.

 

RDG: In questo Rapporto abbiamo descritto le disumane condizioni delle nostre prigioni e dei loro reclusi, accertate tra l’altro da autorevoli tribunali internazionali. La degradazione del detenuto, la sua sofferenza fisica e psichica sono davvero quanto la società chiede al carcere?

LC: Mi auguro proprio di no, per il discorso appena fatto. Il grado di civiltà di un Paese si misura dalla qualità degli ospedali, delle scuole, ma anche delle carceri! E non è certo una civiltà quella che riduce le proprie carceri a luoghi di una pena extra, che si aggiunge alla prevista privazione della libertà. Teatri di sofferenza e spesso di suicidio. Spazi affollati, come è noto, in gran parte da poveri cristi e dove pure il personale addetto, dalla polizia penitenziaria alle altre figure professionali, non può sfuggire a un senso di profonda angoscia e smarrimento. Anche qui la politica è chiamata a un po’ di coraggio. Mi chiedo ad esempio come a fronte di tutte queste titubanze e cautele – che producono misure fatalmente inefficaci, come il decreto cosiddetto “svuota carceri” – non emerga un fatto comprovato: che un buon carcere e una più attenta politica penale sono salde garanzie di sicurezza sociale.

I dati sulla recidiva li conosciamo: là dove sono state applicate misure alternative alla detenzione, o dove la pena è stata accompagnata da adeguati interventi di sostegno, difficilmente la persona uscita dal carcere è tornata a delinquere. Ancora una volta si tratta di decidere se vogliamo affrontare un problema sociale con responsabilità, umanità e lungimiranza, oppure continuare a usare la sola risposta repressiva nell’illusione che possa bastare. Purtroppo è prevalsa in questi anni la seconda opzione, e non solo sul carcere. Coi risultati rovinosi che sono gli occhi di tutti. Perché una politica che asseconda le paure invece di costruire le speranze, è una politica a sua volta senza speranza.



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