Dal Forum Sociale Mondiale: organizzare la resistenza alla guerra contro l’ambiente

Dal Forum Sociale Mondiale: organizzare la resistenza alla guerra contro l’ambiente

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Intervista a Nnimmo Bassey, di Oilwatch International, a cura di Monica Di Sisto e Alberto Zoratti (dal Rapporto sui Diritti Globali 2013)

Nnimmo Bassey è un attivista ambientale nigeriano, ma anche un pastore pentecostale e un poeta, che il “Time magazine” ha insignito come attivista ambientale dell’anno nel 2009. Al Forum Sociale Mondiale, che si è svolto dal 26 al 30 marzo 2013 a Tunisi, è stato uno degli animatori dello “Spazio climatico”, all’interno del quale, oltre a portare la sua esperienza di militante contro gli impatti del settore estrattivo sull’ambiente e le comunità, ha animato un panel delle comunità di fede per la salvaguardia dell’ambiente: «Perché se il cambiamento del sistema non parte dall’anima di ciascuno di noi e dal nostro contatto con la madre terra non andremo lontano e il cambiamento vero non ci sarà mai», spiega. «Gli impatti climatici delle attività estrattive sull’Africa e le altre regioni vulnerabili non sono questioni teoriche. Gli impatti sono reali. Quelle attività si traducono in mancanza di piogge, in mancanza di colture, nell’aumento della desertificazione e degli spostamenti di popolazione. Queste, peraltro, sono solo alcune delle manifestazioni. Questi impatti non sono reversibili e non diminuiranno fino a quando qualcosa verrà fatto in concreto», sottolinea Bassey. Purtroppo, però, nelle valutazioni che si fanno nel mercato di oggi, l’economia viene prima sia del clima sia della gente.

 

Redazione Diritti Globali: La crisi ecologica e ambientale è l’altra faccia di uno sviluppo insostenibile, che ha una sua ragione d’essere nello sfruttamento economico dei combustibili fossili. Per capire che succede bisognerebbe iniziare dall’ABC: cosa si può dire del fenomeno dell’estrattivismo e dei suoi impatti sul pianeta?

Nnimmo Bassey: Prendiamola da lontano. Sorvolando il tema come fossimo su un elicottero, l’umanità appare al momento avere un’impostazione mentale che ci porta a guardare con fiducia alle estrazioni di minerali, di energia, di risorse, sia che sia davvero utile, sia che non lo sia. C’è una attività massiccia di estrazione di materie prime in tutto il mondo: minerali preziosi, combustibili fossili. Se facciamo particolare riferimento al gas e al petrolio, l’intero processo che va dall’esplorazione, all’estrazione fino al trasporto è molto distruttivo. Abbiamo impatti di ogni genere – fisici, sociali, morali, culturali, economici, ambientali – e nonostante questo non c’è all’orizzonte alcun rallentamento. Quanto più il petrolio greggio è scarso, ad esempio, tanto più l’industria diventa accanita e si concentra sulle più estreme forme di estrazione, come le sabbie bituminose, o come il fracking per il gas. L’estrazione non rispetta alcun territorio, non esiste nulla di sacro per essa, e in questa situazione i principali movimenti di capitali operati dagli investitori (che siano Stati, singoli imprenditori o grandi multinazionali) spingono a estrarre più a fondo, più intensamente. Se guardiamo, peraltro, alla dimensione del pianeta e alle forme più estreme di estrazione queste non le troviamo solo nel Sud del mondo ma anche nel Nord: basti pensare alle sabbie bituminose in Canada o al gas-fracking negli Stati Uniti.

 

RDG: Canada, Stati Uniti. La rivoluzione dello shale gas e delle sabbie bituminose sta avvenendo soprattutto nel Nord del pianeta, anticipando scenari geopolitici in forte cambiamento. Ma a Sud che sta succedendo?

NB: Per quanto riguarda il Sud la situazione è altrettanto grave, basterebbe pensare alle miniere di carbone in America Latina, al modo in cui viene estratto a quanto sia tossico. Nello stesso tempo, però, trovi anche un grande movimento di resistenza formato da donne e uomini di tutto il continente e nato non solo contro le miniere, ma anche contro la criminalizzazione del dissenso delle persone delle comunità che vi si oppongono. Perché le attività estrattive sono sempre state fatte senza alcuna consultazione né approvazione da parte dei cittadini e delle comunità. In Asia la situazione è la stessa storia. In Africa le estrazioni stanno diventando sempre più estreme e sempre più tossiche, basterebbe pensare all’oro o ai diamanti. Le multinazionali e persino i governi, operano solo per interessi personali addirittura contro gli interessi degli stessi Stati. Pensiamo alle guerre in Mali, in Congo, in Somalia: sono tutti conflitti per il controllo per i campi d’estrazione del petrolio o del gas.

 

RDG: Gli interventi militari, spesso mascherati da lotta al terrorismo, possono dunque essere letti come guerre per il controllo delle risorse. La violenza diventa quindi strumento per le strategie economiche e commerciali, prima ancora delle questioni geopolitiche?

NB: Io penso che la violenza che vediamo dispiegata a colpi di bombe e di mortaio sia solo un sintomo. La violenza vera è quella ambientale, è l’inquinamento. Penso ai luoghi che sono ormai disperatamente inquinati, come ad esempio al mio Paese, la Nigeria, dove l’estrazione di petrolio va avanti ormai da 55 anni. L’inquinamento ha accompagnato le attività estrattive per tutti questi 55 anni di attività. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), ha condotto un report nel 2011 sul livello di inquinamento da petrolio in Ogoniland, la regione della Nigeria da sempre al centro di un’intensa attività estrattiva. Dice che il petrolio ha contaminato tutte le risorse d’acqua, sia quelle di superficie sia quelle profonde, e che la terra è inquinata per cinque metri di profondità in molti posti, e stima che ci sia bisogno di più di 30 anni di intenso lavoro per bonificare i terreni. Questo è il tempo che ci è rimasto visto che l’aspettativa di vita a causa dell’inquinamento si è ridotta a 41 anni, se ti metti a pulire la terra pure con interventi consistenti, anche con adeguate risorse economiche, in quantità ingenti, e un’adeguata volontà politica, la maggior parte degli abitanti sarà già morta o andata via.

A circa due anni dalla pubblicazione del Rapporto, la politica sta ancora pensando a che cosa fare, sono appena stati individuati i progetti adatti, o almeno presunti tali, ma nulla è davvero cominciato. E che cosa puoi fare quando vivi in una terra dove l’acqua è inquinata, la terra è inquinata e la politica non fa niente? Puoi solo andartene, e infatti in molte zone non ci abita più nessuno e chi ci abitava è diventato un profugo. In tutta la Nigeria ci sono oltre 4 mila luoghi resi sostanzialmente inabitabili e inospitali a causa delle continue dispersioni di petrolio dagli impianti, e ogni giorno si registrano nuovi esodi e si aggiungono nuovi profughi. È questo l’elemento impressionante. C’è, ad esempio, un ultimo episodio che riguarda la fuoriuscita di petrolio da un impianto gestito dall’Eni che si è verificato pochi giorni prima dell’inizio del Forum Mondiale, in questo momento è passata quasi una settimana e non è stato ancora fermato. E lo sversamento, e l’inquinamento, continuano. Questa è la difficile situazione in cui ci troviamo, dove le fuoriuscite dai tubi non vengono monitorate, e non c’è fine alla creatività distruttiva.

 

RDG: Una situazione drammatica, che mette assieme questione ambientale e questione sociale in modo inestricabile, e che ci pone davanti al problema dei profughi ambientali e degli esodi biblici a causa dell’inquinamento. Ma c’è di peggio rispetto a quello che hai già raccontato?

NB: Purtroppo sì, c’è ancora di peggio: pensa alle piattaforme offshore, che le imprese petrolifere hanno preso a sviluppare intensamente, perché portano le loro attività lontano dalla vista dei cittadini. Su quelle piattaforme loro possono fare davvero quello che gli pare proprio perché nessuno vede ed è difficile immaginare quanto possano essere nocivi per i mari e gli oceani. Non bisogna, infatti, pensare solamente al petrolio che fuoriesce durante le attività di estrazione ma anche ai prodotti chimici che servono per la prima raffinazione e che danneggiano irreparabilmente l’ecosistema marino. La cosa più spaventosa, però, è che gli Stati, non appena scoprono di avere risorse minerarie da poter sfruttare con la prospettiva di poter realizzare una grande quantità di soldi cominciano correre nella direzione dello sviluppo convenzionale, basato sui combustibili fossili, affermando che così possono far crescere il benessere della loro popolazione.

 

RDG: Ma la crescita economica, soprattutto se basata sull’estrazione di combustibili fossili, porta realmente benessere alle comunità?

NB: Certo che no. Ormai, mano alle statistiche, abbiamo imparato che anche in presenza di una crescita sostenuta, misurata su un tasso di Prodotto Interno Lordo positivo, la povertà potrebbe non ridursi; anzi, per il continente africano possiamo dire che è cresciuta in misura proporzionale. L’Africa, ad esempio, è cresciuta di un tasso di PIL di più del 7% all’anno negli ultimi anni, ma la povertà si è aggravata. C’è una contraddizione tra gli effetti e i motivi per cui questa ricchezza si vorrebbe fosse generata. Pensa alla Rift Valley, che in Africa orientale ospita un ecosistema molto delicato e che è stata al centro di recenti attività di estrazione petrolifera. Lì si sono verificati numerosi sversamenti di petrolio addirittura nelle riserve naturali, una cosa scandalosa. Insomma, la situazione è molto grave, orribile direi.

 

RDG: Ma davanti a questo scenario così devastante le comunità stanno cominciando a reagire, come veri e propri anticorpi. Contro la politica delle estrazioni e gli impatti ambientali e sociali che comporta, sta ormai crescendo un grande movimento globale, capace di articolare la lotta in modo flessibile e intelligente.

NB: Intorno al pianeta abbiamo una quantità impressionante e crescente di persone e comunità che hanno cominciato a monitorare le attività inquinanti, affiancando a tutti gli strumenti legali disponibili, come ad esempio le Valutazioni d’Impatto Ambientale, anche altre iniziative, come vere e proprie denunce formali nelle quali stanno diventando sempre più capaci e abili. Si tratta di cause legali che vengono intentate nonostante siano in realtà molto dispendiose e difficili da condurre, anche per la quantità di tempo e le competenze che richiedono. Ma non si può fare in altro modo: queste strade vanno tutte percorse perché non hai scelta. A volte funzionano e ci sono anche ormai molti casi di successo, penso alle comunità del Delta del Niger che sono diventate ormai molto vigili perché costrette a rispondere in modo molto più rapido rispetto a quanto erano abituate a fare nel passato.

 

RDG: Ma i conflitti non sono a somma zero. Molte persone difendono i loro diritti e l’ambiente, ma lo fanno a rischio della vita

NB: Non si può negare che c’è un crescente senso di insicurezza per chi si oppone a queste attività, perché molto spesso esse operano coperte da reparti militari o da forze di sicurezza privata armate e disposte a tutto pur di far procedere le operazioni. Le multinazionali non amano la democrazia: preferiscono i regimi totalitari nell’ambito dei quali non debbono rendere conto a nessuno di quello che fanno.

 

RDG: Di questo movimento globale fa parte anche Oilwatch, ci racconti in sintesi quello che fate e chi siete?

NB: Oilwatch International è un network che nasce nei Paesi del Sud del mondo per fermare l’espansione del settore dell’estrazione del carbone, del petrolio, del gas e di tutte le altre risorse inquinanti. Chiediamo che il petrolio non estratto fino a oggi resti sotto terra perché causa, come abbiamo visto, molti più problemi che opportunità considerando che la tecnologia ci mette ormai a disposizione sufficienti strumenti per creare un’alternativa concreta e convincente al petrolio in tutti i campi. Tanto più si estrae quanto più si rende disponibile petrolio sui mercati, questo ovviamente ne diminuisce il prezzo ma a un costo per la natura che è estremo. E uno per l’umanità che è ancora più estremo. Per questo motivo Oilwatch vuole continuare a svolgere il suo ruolo di guardiano e per questo stiamo rafforzando la nostra presenza in Asia, Africa e America Latina. Siamo essenzialmente un network subtropicale e abbiamo a bordo anche organizzazioni internazionali che ci accompagnano e supportano soprattutto nell’analisi dei problemi, come l’Indigenous Environmental Network e il World Rainforest Movement. Facciamo analisi rilevanti sul ruolo geopolitico del settore estrattivo e su come la gestione globale del pianeta sia guidata dall’estrazione del petrolio, e di quanto ci sia un bisogno urgente, a prescindere da chi governi, di un grande salto democratico.



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