Dopo le rivoluzioni arabe. Migrazioni e diritti nel tempo della crisi

by Alessandro Siclari, Rapporto sui Diritti Globali 2012 | 20 Agosto 2016 9:02

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(dal Rapporto sui Diritti Globali 2012)

 

Gabriele Del Grande è il creatore del blog fortresseurope.blogspot.com che da anni tiene memoria dei migranti vittime di naufragi del Mediterraneo ed è ormai un punto di riferimento per chi si occupa di migrazioni. In quest’intervista fornisce un ragionamento sulla situazione politica e sociale dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo che hanno visto lo scorso anno sommovimenti popolari e cambi di regime. Del Grande fa poi un quadro attuale dei diritti umani in quei Paesi e, in particolare, in Libia, anche dal punto di vista dei flussi migratori.

 

Redazione Diritti Globali: A un anno dalle rivoluzioni arabe, possiamo fare un primo bilancio su quelli che sono stati i cambiamenti più significativi?

Gabriele Del Grande: Più che delle rivoluzioni arabe in quanto tali, oggi ci sarebbe forse da fare una analisi delle contro rivoluzioni arabe. Ovvero, di come tutta una serie di forze stiano di fatto prendendo e gestendo il potere, seguendo l’antico adagio del cambiare tutto senza cambiare niente…

Comunque è innegabile che dei cambiamenti ci sono stati e si tratta di cambiamenti epocali. Innanzitutto, quello che di certo è cambiato in modo definitivo e irreversibile è il fatto che un minimo di diritti e di libertà civili individuali sono stati conquistati. Penso soprattutto alla libertà d’espressione in Paesi come l’Egitto, la Tunisia, la Libia. Ma penso anche a Paesi come il Marocco o l’Algeria, dove di fatto non c’è stata una rivoluzione e un cambio di regime ma dove è venuto meno lo stato d’emergenza attraverso una mediazione tra la piazza e il potere. Sia nei Paesi che hanno avuto delle rivoluzioni, sia nei Paesi in cui ciò non è avvenuto, la possibilità di criticare il potere liberamente, sulla stampa, su Internet, la possibilità di riunirsi in associazioni, di fondare nuovi partiti, è un fatto inedito e significativo. L’Algeria che annuncia elezioni e apre agli osservatori internazionali, il Marocco che concede nuovi diritti sulla Costituzione, sulle nuove elezioni, sono rappresentativi di un nuovo clima di apertura che si respira in tutta la sponda sud del Mediterraneo.

Un altro dato positivo è la trasformazione dell’immaginario di questi Paesi. Paesi che per anni sono stati asfissiati da dittature che sembravano eterne e nei quali oggi si respira gioia come se gli orizzonti si fossero finalmente aperti. È come se fosse saltato un tappo: chiunque tu sia – che tu sia un cameriere, un regista, un politico, un avvocato, una casalinga – percepisci che il futuro andrà meglio. La piazza ha fatto cadere il potere, è un precedente assoluto che fa credere che tutto sia possibile e che tutto possa cambiare. Da questo punto di vista, il momento delle elezioni è stato quasi commovente in Tunisia e in Egitto, dove per la prima volta la gente è andata a votare. Gente di quaranta, cinquant’anni che non aveva mai votato nella propria vita, o che non aveva alcuna fiducia nello Stato si è recata alle urne, convinta che la propria voce avrebbe avuto un senso. È stato come vederli riconquistare il proprio spazio, la propria politica, la propria vita. Questi sono due aspetti sicuramente positivi.

 

RDG: Sul fronte politico, i risultati di quelle elezioni ci mostrano l’ascesa dei partiti islamici. Come interpreti questo ulteriore cambiamento?

GDG: Si tratta di una tendenza significativa: Enhadda in Tunisia, Giustizia e Carità in Marocco, i Fratelli Musulmani e i Salafiti in Egitto, e pure in Libia è quasi scontato che vinceranno anche i Fratelli musulmani. Anche a livello di politica estera, la tendenza è quella di appoggiare questi partiti con l’idea che siano gli unici che in questo momento possano garantire stabilità e sostegno popolare. Un sostegno autentico, non falsato, conquistato a vari livelli e in varie classi sociali. L’errore che non bisogna fare, a ogni modo, è quello di considerare questi partiti come partiti liberticidi: conosco attivisti politici, giuristi, giovani di ogni classe sociale che appoggiano questi partiti e non hanno evidentemente nessun interesse a “talibanizzare” i loro Paesi. Io li considero piuttosto partiti nazional-popolari che si richiamano a un discorso e a un immaginario religioso, e a parte alcune eccezioni, non hanno affatto un approccio estremista. Inoltre, la gente che vota questi partiti pone richieste concrete, che poco hanno a che fare con la religione: in particolare credono che votando questi partiti si porterà finalmente avanti una seria lotta alla corruzione. La ragione è semplice: si tratta di partiti che fino a oggi sono stati tagliati fuori dal sistema, a causa del diktat internazionale di combattere gli islamisti. Così adesso, arrivando da fuori, hanno quest’aura di innocenza e di vittime che li fa considerare più “puliti” degli altri. È anche interessante notare, ed è un segno della maturità di sistemi che vanno verso il pluralismo, che non si tratta affatto di percentuali bulgare: c’è una maggioranza della società che ha votato per altri partiti. In Tunisia, poi, nonostante la vittoria abbastanza schiacciante, il partito islamico ha deciso di fare un’ampia alleanza con le altre forze, è prevalso il concetto di interesse e unità nazionale. Non solo, anche tra chi ha votato altri partiti, si percepisce la tendenza a credere che sia un bene che questi partiti, per decenni esclusi e criminalizzati, possano avere la possibilità di partecipare e governare, a patto ovviamente di non cambiare le regole del gioco democratico. Secondo il ragionamento di questa fetta di popolazione, è un passaggio obbligato. Sono anni che la società vive con il pensiero che se il Paese sarà governato dagli islamisti ci sarà finalmente lavoro, giustizia. Adesso queste persone hanno la possibilità di mostrare quello che saranno capaci di fare.

 

RDG: Alcuni episodi, balzati all’attenzione internazionale, per certi versi sembrano mettere in discussione quello che dici…

GDG: Si tratta di episodi particolarmente seguiti dalla stampa italiana, le classiche bombe mediatiche, come le proteste dei salafiti in Tunisia, le proteste all’università sul velo delle ragazze, il caso della censura a Persepolis. Si tratta di simboli su cui si innescano delle battaglie simboliche. In realtà si tratta di poche proteste che riguardano comunque poche persone. Sono notizie che fanno breccia negli organi di stampa, ma non credo abbiano molto valore e non bisogna dar loro troppo peso.

Le questioni vere sono altre. Ad esempio il fatto che la Tunisia sia tuttora paralizzata da scioperi diffusi in tutto il Paese. È evidente che dopo la rivoluzione, ottenuta la libertà di cui si parlava prima, la gente inizia a chiedere più diritti anche sul fronte economico, come salari più alti, condizioni migliori, eccetera Quello degli scioperi è attualmente un problema estremamente sentito: una compagnia giapponese ha recentemente annullato una serie di investimenti milionari a causa di questi scioperi, e vi è stato persino un intervento del Presidente della Repubblica ai cittadini per cercare di placare gli animi. Sono sfide cruciali, perché la democratizzazione di questi Paesi mette in gioco anche tutto il sistema della delocalizzazione per il quale si viene qui a produrre a prezzi irrisori. Io capisco le logiche del mercato, ma non bisogna esagerare. La democratizzazione probabilmente metterà in discussione anche questa delocalizzazione selvaggia, basata su salari esageratamente bassi.

 

RDG: In Egitto la preoccupazione più grande è quella dell’esercito

GDG: Per quanto riguarda l’Egitto, la questione più complessa è evidentemente quella militare. C’è stata la caduta di Hosni Mubarak, il processo. Tuttavia, in questi mesi la gente ha continuato a protestare, con una serie di picchi come la scorsa estate quando c’è stata la strage dei copti, o a ottobre con le proteste al ministero degli Interni, e infine con i morti allo stadio in seguito agli scontri tra tifoserie che secondo alcuni sono stati fomentati dall’esercito.

L’obiettivo di queste proteste è uno solo: chiedere che i militari lascino il potere. Sebbene tra la gente vi sia un grandissimo rispetto per l’esercito (a differenza degli altri corpi di sicurezza che torturavano e uccidevano), la gente ritiene comunque che sia arrivato il momento che l’esercito lasci il potere.

Allo stesso tempo, bisogna sottolineare che c’è un distacco tra la piazza e la gente. Piazza Tahir a gennaio rappresentava tutto l’Egitto, mentre oggi chi protesta rappresenta solo una minoranza di attivisti. La maggior parte della popolazione si è staccata dalla rivoluzione, vuole tornare alla stabilità, ed è convinta che bisogna solo avere pazienza e lasciare che i militari sistemino le cose e conducano la transizione fino alle prossime elezioni.

Siamo vicini al momento della verità: presto capiremo se e come l’esercito è davvero intenzionato a lasciare il potere.

Un altro elemento da considerare è la questione musulmana, e in particolare la relazione tra i salafiti e i Fratelli musulmani. I salafiti sono l’anima più radicale, mettono in discussione gli alcolici, il turismo di massa, eccetera, ma bloccare il turismo vuol dire impedire di lavorare a otto milioni di persone – quelle attualmente impiegate in questo settore. Si tratta evidentemente di richieste forti, volutamente provocatorie, ma i Fratelli musulmani, che sono, se vogliamo, l’anima moderata del movimento musulmano hanno già detto che non si alleeranno con i salafiti nelle prossime elezioni. Vedremo cosa succederà.

 

RDG: La Libia tra tutti risulta il Paese più enigmatico, senza uno Stato centrale, un po’ lasciato in balia del controllo esercitato dalle milizie.

GDG: Anche rispetto alla Libia, la mia sensazione generale è molto positiva. C’è un clima nuovo, di orgoglio ritrovato, la gente è fiera di quello che è stata in grado da fare. Il clima da liberazione è ancora più forte, perché la Libia, a differenza di altri, ha molte risorse economiche e si assiste già all’arrivo di molti soldi.

A parte gli investitori europei storici, italiani in primis, arrivano investimenti dal Qatar, dalla Turchia. Al contempo, sul fronte sociale, si moltiplicano le radio, le associazioni, stanno nascendo moltissimi partiti. Si parla di elezioni a giugno, e sarà un evento fondamentale. In alcune città in realtà si è già votato per i consigli locali: le prime elezioni dopo 40 anni di regime di Gheddafi!

Non bisogna ovviamente dimenticare che ci sono delle criticità, la prima è questa situazione che definirei di gioiosa e partecipata anarchia nella quale si trova oggi la Libia. Il governo centrale non controlla il territorio, non esistono corpi di sicurezza legittimati a livello centrale: ci sono queste milizie che fanno questo lavoro di riordino e di sicurezza in attesa che un’istituzione centrale riprenda il controllo del territorio. Quando parliamo di milizie, non bisogna però pensare a bande armate che fanno quello che vogliono, la situazione è meno caotica di quello che appare. Ero lì recentemente e in giro ci sono molte meno armi. Se fai il percorso da Tripoli a Misurata, circa 200 chilometri di autostrada, ci saranno al massimo tre, quattro posti di blocco. Fino a quattro mesi fa, le armi erano dappertutto, la gente andava al forno con il kalashnikov in spalla, oggi le armi non si vedono più in giro. Non sono scomparse, ma grazie a un coordinamento tra le milizie delle varie città gli eventi gravi sono ora sporadici.

 

RDG: Un po’ di tempo fa tuttavia è uscito un Rapporto di Amnesty che denunciava le torture perpetrate dai miliziani e dava una visione molto meno ottimista…

GDG: Non voglio essere frainteso, è evidente che ci sono ancora molti problemi da risolvere. La situazione generale è quella che ho detto, ma a livello locale ci sono ancora problemi gravi, tra cui, ad esempio, quello degli scontri tra le città.

Quando la Libia è scesa in piazza, alcune città sono rimaste fedeli al regime fino all’ultimo. Sirte, ad esempio, la città natale di Gheddafi, oggi è una città devastata. Una volta caduto il regime, prima di ritirarsi, i miliziani hanno distrutto tutto: case, ospedali, tutte quelle strutture che, secondo gli altri libici, Gheddafi aveva costruito senza ragione, togliendo risorse ad altre città.

Ci sono poi città fantasma come Tauarga, la città in cui facevano base i circa 15.000 soldati di Gheddafi che per tre mesi hanno tenuto in assedio la città di Misurata, uccidendo più di 3.000 persone, commettendo stupri e violenze di ogni tipo. Una volta che Misurata è stata liberata, le milizie di Misurata sono andate a Tauarga e, anziché prendersela con i miliziani di Gheddafi, che nel frattempo erano andati via, se la sono presa con la gente, colpevole di aver collaborato o di non aver fatto nulla per aiutare la città vicina. Così hanno cacciato via tutti, hanno bombardato, incendiato, distrutto, con l’idea che in quella città non ci sarebbe tornato più nessuno. Molte di quelle persone ovviamente non c’entravano niente, non hanno commesso alcun crimine, la loro colpa era di essere stati dalla parte sbagliata. Oggi, molti degli abitanti di Tauarga sono andati a Tripoli e a Bengasi dove sono stati allestiti dei campi profughi, e dove questa gente vive grazie alla solidarietà delle associazioni libiche che portano loro da mangiare, danno loro un posto per dormire. Ma la tensione è ancora viva e fino a che manca uno Stato, le milizie di Misurata continueranno a farsi la “loro” giustizia, anche cercando di individuare i 4.000 soldati volontari che hanno aiutato le milizie di Gheddafi ad assediare Misurata. Vanno nei campi profughi, prendono le persone e le portano in carcere, tra l’indignazione e le proteste degli abitanti di Tauarga alloggiati nei campi.

 

RDG: E nelle carceri cosa succede?

GDG: La guerra non è una scuola di galanteria, è una scuola di violenza. Quando di fronte a te c’è il nemico, qualcuno che ha ucciso dei tuoi parenti è difficile trovare difensori di diritti umani, specie in assenza di un forte Stato di diritto. Non è per giustificare, ma per comprendere questi fenomeni. Umiliare, picchiare qualcuno per cercare di ricavare informazioni su chi ha ucciso la tua gente, è qualcosa che avviene ancora. Detto questo, c’è da dire che in carcere la situazione è sicuramente migliore di prima. Se prima la tortura era la regola e nessuno diceva niente, oggi mi sento di poter dire che è un’eccezione.

La grande differenza, inoltre, è che prima tutto ciò avveniva segretamente, oggi lo scandalo dei casi di tortura di Misurata è stato possibile perché Medici Senza Frontiere aveva accesso alle carceri. E dopo il rapporto di Msf, anche Amnesty ha avuto accesso. La differenza è che oggi nelle carceri si può entrare, c’è un occhio in più di controllo. Nonostante questo, alcuni brutti episodi si verificano ugualmente, ed è un problema molto grosso, ma il trend è comunque quello di un miglioramento.

 

RDG: Gli immigrati dell’Africa subsahariana che si trovavano in Libia per lavoro sono stati vittime di gravi violenze.

GDG: Durante la guerra ci sono stati episodi molto gravi, ci sono stati morti, arresti e detenzioni, anche di gente innocente la cui unica colpa in molti casi era di avere un colore diverso, e di trovarsi nel momento sbagliato al posto sbagliato. In altri casi, si trattava di mercenari pagati dal regime. In assenza di uno Stato, tutto era lasciato all’arbitrarietà dei miliziani che non sempre verificavano l’identità

Il dato che più colpisce è la fuga di massa dalla Libia, 700.000 migranti secondo i dati dell’Oim, di cui 30.000 verso l’Italia e gli altri nei Paesi limitrofi. Adesso stanno ritornando, per il semplice fatto che ce n’è bisogno. Tutti quei lavori mal pagati, la bassa manovalanza, ha ancora una forte richiesta.

Ora però la gente preferisce tunisini, egiziani, ma non africani. Non solo per la questione dei mercenari, ma anche perché credono che Gheddafi avesse favorito gli africani a scapito dei libici.

La gente ovviamente torna comunque, anche se serve il visto per entrare e ci sono controlli alle frontiere fatti dalle milizie; una volta entrata in Libia cerca un lavoro e lo trova, perché il lavoro c’è, infatti si vedono di nuovo molti lavoratori africani che fanno i baristi, i benzinai, i muratori. La situazione è ambigua: alcuni ti diranno che non hanno nessun problema, che si trovano bene, un altro magari è stato arrestato da uno delle milizie che lo considera un mercenario ed è stato portato in un centro di detenzione.

Nei centri di detenzione, come nelle carceri, la situazione, come dicevo, ha delle criticità ma tendenzialmente è in miglioramento. Per la prima volta l’Oim e le Nazioni Unite hanno accesso a tutti i centri, per la prima volta si fanno distinzioni tra chi chiede asilo politico e chi no; o, meglio, si fa distinzione tra chi viene da Paesi in guerra e chi viene da Paesi stabili. Ad esempio, a Kufra, somali, eritrei ed etiopi ora vengono separati dagli altri, la mattina sono liberi di uscire e rientrano la sera a dormire, in attesa che sia organizzato il loro trasferimento a Bengasi, dove c’è un campo di accoglienza, in cui le Nazioni Unite danno un tesserino con il quale se ti fermano le milizie puoi stare più o meno tranquillo. Poi, di fatto, molta gente resta detenuta, le condizioni, seppur migliorate, non sono buone. D’altra parte, non sono buone nemmeno in Italia.

 

RDG: Che impatto avranno invece queste dinamiche nei confronti della migrazione verso l’Europa?

GDG: Dall’agosto 2011, in sette mesi, saranno arrivate sei barche, pochissime. Questo mostra come la rete logistica che organizzava le traversate era in diretto contatto con il regime. Addirittura, nell’ultimo anno le traversate venivano organizzate direttamente dal regime dai porti di Tripoli e Janzour. Quella rete oggi non esiste più. Ricordiamoci però che il contrabbando è un mercato come un altro e quindi se si crea una domanda ci sarà sempre gente che si organizzerà per guadagnarci.

Tuttavia, se parli con la gente, ti rendi conto che c’è un atteggiamento inedito di contrarietà verso questo fenomeno. La gente è stanca di vedere la Libia come un ponte di passaggio: se un ragazzo vede una barca pronta a partire, è facile che chiami la polizia o qualcuno per fermarli. C’è un clima ostile alla migrazione clandestina, in contrapposizione al periodo di Gheddafi che, di fatto, lasciava stare.

 

RDG: Una vera e propria rivoluzione rispetto al governo precedente…

GDG: Gheddafi usava la migrazione come un’arma politica, ha incoraggiato queste partenze soprattutto nel momento in cui doveva negoziare con l’Italia e l’Europa. Una volta che otteneva quello che voleva, come il Trattato d’amicizia, gli sbarchi si interrompevano. Nel 2009 gli sbarchi furono pochi, e non certo grazie ai respingimenti. Era Gheddafi che diceva ai contrabbandieri di farla finita, ne arrestava alcuni, perseguiva altri, faceva accordi con altri ancora. L’anno scorso, con la guerra, la macchina della migrazione è ripartita perché l’idea era quella di mettere pressione al governo italiano e alla componente xenofoba del vecchio governo italiano, la Lega, per togliere l’appoggio al bombardamento Nato.

Oggi ci troviamo in una situazione diversa. Il nuovo governo libico ha perfettamente interiorizzato il discorso repressivo europeo senza troppe critiche, è favorevole alla lotta alla migrazione verso la Libia e verso l’Europa. Di buono c’è il fatto che firmeranno la Convenzione di Ginevra, che danno segni di volere uno Stato di diritto. Quindi, se prima il modello era quello di bloccare indistintamente, oggi c’è più attenzione alle normative internazionali in fatto di profughi e rispetto dei diritti umani. Prima, quando l’Italia respingeva gli eritrei e i somali insieme a tutti gli altri, queste persone finivano in galera, venivano torturate, picchiate fino a quando non riuscivano a farsi mandare i soldi per corrompere una guardia e scappare. Adesso, succede che intercettano una barca di somali, la portano indietro, avvisano le Nazioni Unite e i somali e gli eritrei il giorno dopo vengono riportati al centro di accoglienza.

La cosa è diversa se si tratta di migranti economici. In quel caso restano in galera fino a quando vengono rimpatriati con programmi finanziati dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni di rimpatrio assistito. Anziché marcire nelle carceri libiche preferiscono il rimpatrio volontario e assistito nei loro Paesi di provenienza.

 

RDG: Cosa pensi della sentenza della Corte Europea che ha ritenuto illegittimi i respingimenti dei migranti da parte del governo italiano?

GDG: È una sentenza importante, che chiude il cerchio dopo tre anni di respingimenti indiscriminati. Il mio timore è che si tratti di una sentenza dal valore più storico che politico. La triste verità è che con Gheddafi flirtavano tutti, anche l’UE aveva sulla scrivania un dossier con un accordo sulla Libia. Il fatto che Gheddafi sia caduto e che ci sia un governo più democratico, che metterà in atto procedure più trasparenti, permette il lusso di fare una sentenza molto forte, di cesura con il passato. Sul fatto che non succeda più niente, ci credo poco. Sono diffidente perché i respingimenti li fanno tutti, sono pratiche messe in atto in tutta Europa, quindi mi sembra strano che non si ricorrerà più a questo strumento. Quello che mi dà fiducia è la percezione della volontà dei nuovi governanti di trasformare la Libia in un Paese all’avanguardia sul fronte internazionale.

Domani la Libia potrebbe essere un Paese terzo sicuro. Già oggi ci sono molti siriani che arrivano quotidianamente e, anziché fermarsi in Egitto, vanno in Libia, Paese che sta appoggiando fortissimamente il consiglio della rivoluzione siriana. Per i siriani la Libia è giù un Paese sicuro, domani potrebbe esserlo anche per gli eritrei e i somali. Lo speriamo. Detto questo, come ripeto spesso, i respingimenti hanno mostrato una cosa molto semplice: che non si può fermare il movimento della gente. Se la Libia non sarà più la piattaforma d’ingresso, la gente partirà da qualche altra parte. Chi vuole andare in Europa passerà dalla Turchia, dall’Ucraina o chissà da dove.

 

RDG: La crisi economica pare rappresentare un muro molto più efficace di qualsiasi controllo…

GDG: Si tratta di un fatto estremamente significativo ed è la prova che è irrazionale e controproducente tentare di controllare il movimento delle persone. Sono altri i fattori che determinano o disincentivano la migrazione. Negli anni scorsi, nonostante i divieti e le barriere, la gente trovava comunque il modo per emigrare e arrivava perché esisteva una domanda, un mercato del lavoro che li chiamava. Con la crisi, la gente ha molta meno voglia di partire. Molti tornano indietro, altri preferiscono rimanere nei loro Paesi, il passaparola funziona.

C’è anche un discorso generazionale: in Algeria, Marocco, Tunisia ed Egitto, la rivoluzione ha ribaltato l’immaginario e oggi il mito dell’Europa si è molto ridimensionato. I ragazzi di oggi sono figli di tempi nuovi, hanno prospettive diverse. Il tunisino medio, per fare l’esempio più emblematico, è fiero del suo Paese, sa che ha molte più opportunità nella sua terra che fuori. Nei giorni immediatamente successivi alla rivoluzione, quando con la caduta di Ben Ali è venuto meno qualsiasi controllo alle frontiere, sono partiti 25.000 ragazzi, con le motivazioni più varie: disoccupazione, gente con parenti in Francia che vanno a trovare la famiglia, eccetera.

In molti casi, erano ragazzi che avevano partecipato attivamente alla piazza e che sentivano questa partenza come un segno della loro ritrovata libertà. Dieci anni fa nessuno di loro sarebbe tornato indietro, sarebbe stata considerata una vergogna. Invece in questi mesi molti di loro sono tornati indietro, consapevoli di avere più prospettive in Tunisia. Non conosco bene il contesto subsahariano, ma immagino che anche lì la gente si renda sempre più conto che le cose sono cambiate. In Libia ho incontrato nigeriani, maliani, che non hanno alcuna intenzione di andare in un’Europa in crisi e sempre meno accogliente. Ci sentiamo il centro del mondo, ci siamo chiusi dentro una fortezza per proteggerci da un fantomatico assedio. Ma questo assedio non esiste e anzi il centro del mondo probabilmente si sta spostando altrove.

 

RDG: Nel nostro Paese si è tornati a parlare di ius soli e ius sanguinis.

GDG: È una questione da analizzare su un doppio livello. La prima è la questione del potere del passaporto: nel villaggio globale mobilità significa potere. A seconda del passaporto che hai, cambia la tua possibilità di spostarti, di agire, di studiare, di muoverti nel mercato globale. Fino a quando i documenti sanciranno le tue opportunità, esisterà il fenomeno dello shopping del passaporto, della cittadinanza. Un giovane europeo che va a vivere in un altro Paese dell’Unione difficilmente chiederà una cittadinanza diversa, perché questo non comporta un aumento di diritti. Per chi invece viene da un Paese africano e sogna che i propri figli possano accedere a più diritti di quelli di cui ha goduto lui, il discorso cambia radicalmente.

Il discorso è ulteriormente diverso per i ragazzi che nascono qui, da genitori che vivono e lavorano qui, che frequentano le nostre scuole e a 18 anni si scoprono stranieri!

In questo caso, si tratta di una politica illogica, che fatico a non definire razzista. Perché si basa sul principio arcaico che apparteniamo a una comunità di sangue, per cui se sei discendente di qualcuno emigrato in Argentina casomai nell’Ottocento, sei italiano, mentre se sei nato in Italia da genitori stranieri, nonostante tu viva qui e sia cresciuto qui, non sei un cittadino italiano.

Questo ci rimanda a una questione più generale, al fatto cioè che viviamo in un’epoca in cui le nazioni sono diventate metodi di organizzazione dello spazio inadeguate a un mondo fatto di gente che viaggia, che vive tra due, tre Paesi. Le persone oggi sempre più spesso appartengono a più nazioni, a più Paesi, a più culture contemporaneamente. Si va sempre di più verso logiche transnazionali. Quello di cui avremmo bisogno è una specie di passaporto globale, che indichi il tuo luogo di nascita, ma che poi dia accesso agli stessi diritti di mobilità. È un po’ presto per parlarne, ma sono sicuro che prima o poi ci arriveremo.

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