L’odissea degli operai di Pomigliano

L’odissea degli operai di Pomigliano

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Nel 2007 l’amministratore delegato della Fiat annunciò la chiusura per sei mesi dello stabilimento automobilistico di Pomigliano e l’avvio di corsi di formazione per addestrare gli operai alla nuova organizzazione del lavoro aziendale.

Venne creato allora un centro logistico a Nola, dove furono trasferiti 316 lavoratori scelti fra gli attivisti più sindacalizzati. Un “reparto confino” dove gli operai rimasero per sei anni in Cig a zero ore, senza alcuna prospettiva di ripresa del lavoro. In quei sei anni si verificano due suicidi, almeno sei tentativi di suicidio e numerosi gesti autolesivi.

Il 30 luglio 2011, Maria Baratto, attivista e cassintegrata di Nola, scriveva: «Il tentato suicidio oggi di Carmine P., cui auguriamo di tutto cuore di farcela, e il suicidio di Agostino Bova dei giorni scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla Fiat per futili motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la punta dell’iceberg della barbarie industriale e sociale in cui la Fiat sta precipitando i lavoratori». Nemmeno tre anni dopo, il 20 maggio 2014, Maria Baratto si tolse la vita squarciandosi il ventre con un coltello.

Il giorno del suo funerale, i compagni di lavoro si distesero per terra davanti al reparto, le maglie chiazzate di vernice rossa sul ventre. Pochi giorni dopo, il 5 giugno 2014, issarono davanti al centro logistico un fantoccio in pantaloni scuri e camicia rosa con incollata sul volto la fotografia dell’amministratore delegato.

Penzolava da un cappio fissato a una trave su cui era affisso un cartello. «Mi ammazzo, perdonatemi per tutti quegli operai che si sono suicidati». Anche questa rappresentazione riproduceva la scena del suicidio di un compagno di lavoro: Giuseppe De Crescenzo, 43 anni, separato e padre di due figli, in cassa integrazione a zero ore da 5 anni, trovato impiccato nella sua abitazione quattro mesi prima.

Quindici giorni dopo, ai cinque operai individuati come organizzatori del finto suicidio venne notificato il licenziamento per aver messo in atto «un intollerabile incitamento alla violenza» e «una palese violazione dei più elementari doveri discendenti dal rapporto di lavoro», provocando «gravissimo nocumento morale all’azienda e al suo vertice societario», tale «da ledere irreversibilmente il vincolo di fiducia sotteso al rapporto di lavoro».

I licenziati fecero ricorso ma il 28 maggio 2015 il giudice del lavoro di Nola dichiarò legittimi i licenziamenti. L’8 aprile 2016, nel riesame del ricorso, il Tribunale di Nola confermò il primo giudizio. Nella motivazione si legge che le manifestazioni messe in atto «hanno travalicato i limiti del diritto di critica e si sono tradotte in azioni recanti un grave pregiudizio all’onore e alla reputazione della società resistente, arrecando alla stessa, in ragione della diffusione mediatica che esse hanno ricevuto, anche un grave nocumento all’immagine».

La lettura delle sentenze, redatte nel linguaggio asettico dei documenti legali, lascia la strana sensazione di una progressiva scomparsa della realtà fattuale. Mettendo al margine i morti, trattandoli come oggetto di generica pietà umana, il testo rende insignificante gesticolazione proprio ciò che i compagni degli scomparsi intendevano urlare: il legame tra cassintegrazione e suicidio.

«Pare tuttavia doveroso affermare – è scritto nella seconda sentenza – che non sono emersi in giudizio (né sono stati dedotti dai ricorrenti) elementi (gravi, precisi e concordanti) da cui poter desumere un immediato nesso di causalità tra i tragici suicidi dei predetti lavoratori e la conduzione manageriale imputabile all’amministratore delegato della società resistente».

Ma quel nesso di causalità è difficile da contestare, dato che a Nola la frequenza dei suicidi è circa 100 volte più alta della media nazionale, come l’avvocato difensore degli operai licenziati ha di fatto presente al giudice. Uno stato di sofferenza e disperazione ripetutamente segnalato nella storia recente.

Tra l’ottobre 1980 e l’aprile 1984, l’avvocato Francesco Caterina censì e documentò 149 casi di suicidio tra i soli cassintegrati della Fiat di Torino e delle aziende dell’indotto. «Ai suicidi conclamati tra i cassintegrati Fiat», scrisse Marco Revelli, «si aggiunge l’area assai vasta del disagio psichico, delle depressioni invalidanti, dell’autoesclusione muta».

Ma la pretesa neutralità della prima sentenza, ratificata dalla seconda, svanisce nella scelta dei termini quando sceglie la parola «patibolo» per indicare la struttura cui il fantoccio viene appeso, e la parola «impiccagione» per quella che con ogni evidenza intendeva essere la rappresentazione di un suicidio.

Così una protesta esasperata e certamente criticabile nelle forme – ma incomprensibile solo se astratta dal contesto in cui matura – diventa «un intollerabile incitamento alla violenza» e motivo di un licenziamento considerato legittimo dai giudici del lavoro, con il risultato paradossale di lasciare senza reddito e senza prospettive altri cinque operai, uno dei quali da più di un mese dorme in macchina dopo aver ricevuto lo sfratto.

Nelle due sentenze, l’obbligo di fedeltà e diligenza del lavoratore nei confronti dell’azienda viene esteso fuori dall’ambito lavorativo, benché si tratti di persone estromesse da tempo dai luoghi e dalle pratiche produttive.

Per i giudici, «i comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata, ed estranei perciò all’esecuzione della prestazione lavorativa possono costituire giusta causa di licenziamento allorché, traducendosi in una violazione dell’obbligo di fedeltà risultante dall’art. 2105 c.c. (da intendersi in senso ampio nei termini descritti dalla Corte di Cassazione), siano di natura tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro nel corretto espletamento del rapporto».

Il quadro legale complessivo di questi ultimi anni sembra voler costringere il diritto del lavoro in un ruolo sempre meno terzo e sempre più notarile, facendo venir meno la fondamentale funzione di bilanciamento dello squilibrio costitutivo del rapporto di forza fra imprenditore e dipendente che questa disciplina ha esercitato fin dal dopoguerra.

Se a questo si aggiunge la repulsa – quando non la criminalizzazione – per ogni manifestazione di protesta che non sia “educata”, politicamente e formalmente “corretta”, questa vicenda rappresenta un preoccupante segnale d’allarme sullo stato della libertà d’espressione nel nostro Paese.

In Italia – afferma un appello a sostegno dei cinque licenziati firmato tra gli altri da Moni Ovadia, Erri de Luca, Ascanio Celestini, Maurizio Ferraris, Guido Viale, Luigi De Magistris, e sottoscritto da numerosi artisti, accademici, intellettuali, avvocati e sindacalisti – si moltiplicano i «casi di lavoratori licenziati per aver espresso pubblicamente opinioni critiche verso le scelte delle proprie aziende, anche fuori dall’orario e dalle sedi di lavoro.

Licenziamenti che vengono confermati nei diversi gradi di giudizio con motivazioni riconducibili all’obbligo primario di fedeltà alla propria azienda». Le recenti riforme del mondo del lavoro, continua l’appello, «hanno modificato le relazioni tra lavoratori e datori di lavoro, indebolendo le tutele dei primi a favore dei secondi.

Allo stesso modo è cambiato radicalmente anche il diritto del lavoro. Con esiti che incidono godimento dei diritti di espressione e critica sanciti dall’articolo 21 della Costituzione, e di annullare le tutele di quell’autonomia e libertà di critica che sono i prerequisiti di qualsiasi relazione sindacale». Gli operai sono diventati invisibili, temporanei, sempre meno tutelati, quando non rimanenze: «esuberi», «esodati», in un offensivo gergo aziendale tracimato nel vocabolario comune.

Il 5 aprile 2014, con una lettera aperta indirizzata all’amministratore delegato, i “confinati” di Nola – la cui cassa integrazione sarebbe scaduta a luglio – chiesero di essere inseriti nel contratto di solidarietà previsto per gli operai a Pomigliano in base a un accordo sindacale del 18 marzo. «Sappiamo costruire bene le automobili», scrivevano, «e vorremmo continuare a farlo».

«La lotta dei lavoratori Fiat contro il piano Marchionne e a tutela dei diritti e dell’occupazione», affermava Maria Baratto in quello che sarebbe diventato il suo testamento, «rappresenta un forte presidio di tenuta democratica per l’intera società».

Il 16 settembre si terrà a Napoli un incontro pubblico con i firmatari dell’appello, giuristi, lavoratori, sindacalisti e cittadini per dar voce a questa battaglia. Per seguire e sostenere questa iniziativa:https://nolicenziamentiopinione.wordpress.com/il-testo-dellappello/

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