È necessaria una nuova rotta per l’Europa e un’efficacia globale del sindacato
(dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)
Secondo Leopoldo Tartaglia, coordinatore del Dipartimento Politiche Globali della CGIL nazionale, la vicenda dell’Ucraina raccoglie in sé ed evidenzia molte delle contraddizioni della globalizzazione post 1989 e del modo in cui si è caratterizzato il processo di costruzione europea.
Per Tartaglia, è stata molto importante la mobilitazione sindacale che ha portato a Bruxelles almeno 50 mila lavoratori provenienti da tutta Europa a sostegno delle proposte che la Confederazione Europea dei Sindacati ha presentato da tempo per un piano europeo di investimenti e lavoro, chiedendo che nel prossimo decennio ci sia un impegno a investimenti pubblici pari al 2% del PIL europeo al fine di creare milioni di posti di lavoro di qualità; un programma possibile con risorse assai minori di quelle impiegate per sostenere le banche.
Per quanto riguarda l’Italia, invece, il dirigente della CGIL sottolinea la validità della creazione della Rete per la Pace. Si tratta di un nuovo coordinamento nazionale, sorto dalla necessità di superare le difficoltà a costruire posizioni comuni e a mobilitarsi efficacemente su conflitti e azioni militari che hanno visto implicata anche l’Italia: dall’Afghanistan, alla Libia, alla Siria.
Redazione Diritti Globali: Partire dai fatti di Ucraina è quasi d’obbligo. La CGIL a febbraio 2014 aveva lanciato un appello per “il ritorno a un clima di agibilità democratica laddove adesso imperversa una vera e propria guerra civile”. Le cose non sono andate così. L’Europa non ha saputo o voluto rispondere come avrebbe dovuto, e cioè proprio proponendosi come mediatore, e la Russia è intervenuta come, in certa misura, era logico aspettarsi. Oggi il conflitto non è sedato. Che valutazione date di quanto è accaduto e soprattutto che scenari si aprono rispetto alle relazioni e ai nuovi equilibri globali?
Leopoldo Tartaglia: La situazione è in rapido movimento e quanto diciamo al momento dell’intervista può essere smentito da nuovi sviluppi sul campo, in qualsiasi direzione. Però è chiaro che la vicenda dell’Ucraina raccoglie in sé molte delle contraddizioni della globalizzazione post 1989, del modo in cui si è caratterizzato il processo di costruzione europea, dell’incapacità di costruire una nuova governance globale. La necessità è quella di costruire organismi sovranazionali capaci di affrontare tensioni e conflitti con strumenti diplomatici e di consenso e non con interventi militari, guerre, invasioni, “strumenti” che sono tuttora all’ordine del giorno in molte parti del globo. Partirei da un’informazione, che la grande stampa non ha dato: in una situazione difficilissima e avendo in mente il peso relativo di queste organizzazioni, i sindacati riuniti nel PERC, il Consiglio Regionale Paneuropeo della Confederazione Internazionale dei Sindacati, quindi tutti i sindacati dei Paesi dell’Unione Europea e quelli dell’Europa centrale e orientale, Russia inclusa, hanno espresso una posizione comune per l’integrità territoriale dell’Ucraina, il dialogo democratico tra tutte le componenti del Paese, la difesa dei diritti civili e sociali, a partire dalle condizioni dei lavoratori. Qui viene in evidenza un aspetto – anch’esso mi sembra trascurato – della situazione ucraina. La mobilitazione di piazza è strumentalmente letta solo nei termini democrazia contro autoritarismo, filo europei contro filo russi, che certamente sono presenti; del resto, in Ucraina come in Russia, una parte consistente dell’establishment gioca molto su forti e profondi sentimenti nazionalistici. Ma non si guarda mai alla dimensione sociale della protesta, alle condizioni di vita della gran parte della popolazione. L’Ucraina è l’unico Paese del blocco ex sovietico che non è ancora tornato ai livelli economici dell’epoca comunista. Nonostante il Paese possa contare su una sparuta ma solida classe media – ampiamente rappresentata tra i manifestanti – negli ultimi 20 anni il reddito dei 46 milioni di ucraini è cresciuto più lentamente di quello dei bielorussi sotto il regime di Aleksandr Lukacenko. Il reddito degli ucraini, 25 anni fa, era simile a quello dei polacchi, ma oggi quest’ultimo è il quadruplo. Dal 1991 a oggi ben 6,5 milioni di donne e uomini hanno lasciato l’Ucraina in cerca di lavoro altrove. L’altissima corruzione colloca il Paese, nella classifica di Trasparency International, al 144° posto su 177. Nei manifestanti filoeuropei c’è anche l’idea e l’aspirazione di trovare maggior benessere nell’adesione all’Unione, quasi un’immagine rovesciata rispetto ai tanti europei che vorrebbero invece fuggire dall’euro e dall’Europa dell’austerità. Europa che non è – come sappiamo – un’entità politica, che non ha una politica estera comune, che non ha rispetto alle politiche di interscambio e alla dipendenza energetica dalla Russia interessi economici comuni e si rivolge ai suoi vicini – a Est come nel Mediterraneo – pensando che il libero scambio e i trattati commerciali risolvano tutti i problemi di “accesso” e di buone relazioni.
Dietro la tragedia ucraina sta la non-politica dell’UE verso la Russia allo stesso modo in cui la Russia gioca ogni carta per riaffermare il suo ruolo di potenza, non solo regionale. Così l’Amministrazione Obama è costretta a intervenire – e se una soluzione “politica” si troverà, sarà tra Barack Obama e Vladimir Putin, non certo tra Putin e Catherine Asthon – di fronte alla fragilità europea per riaffermare i suoi interessi, ma in fondo, per quanto riguarda l’Europa, proponendo la stessa logica mercantile attraverso la Partership Transatlantica su Commercio e Investimenti (TTIP).
RDG: I limiti dell’Europa si sono visti anche nella guerra in Siria. In questo caso è stata la Russia a spingere un’iniziativa che potesse scongiurare i rischi di un intervento armato esterno (propugnato dagli USA e sul quale l’Europa si è divisa). Il governo di Bashar Assad ha accettato la mediazione russa e si è impegnato alla distruzione delle sue armi chimiche. Secondo la CGIL, come dovrebbe muoversi l’Europa per affermare un suo ruolo di mediatrice? Occorre, peraltro, ricordare che all’Unione Europea è stato attribuito il premio Nobel per la Pace.
LT: Il Nobel per la Pace premia più un passato, una storia e potenziali valori del processo di integrazione europea che non l’attuale contributo europeo alla pace mondiale. Siamo al centenario dallo scoppio della Prima guerra mondiale. In questo continente, nel cuore dell’Europa, sono nate e sono divampate le due tragedie del secolo scorso, guerre “mondiali europee” che hanno prodotto immani carneficine, a un livello di efferatezza e di vittime civili mai riscontrato in precedenza. Nel cuore del nostro continente sono nati e si sono sviluppati processi politici disumani e criminali come il fascismo e il nazismo, la persecuzione degli ebrei, la Shoah, l’Olocausto. Costituisce un fatto storico di enorme portata, sicuramente foriero di pace e “stabilità” in Europa e nel mondo, il fatto che, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, sulle macerie della Seconda guerra mondiale, sia cresciuto un processo di integrazione a cominciare dai due Paesi – la Francia e la Germania – dal cui conflitto si erano innescate le due grandi deflagrazioni; così come che nel dopo 1989 si sia pacificamente andati alla riunificazione della Germania e all’inclusione di Paesi dell’ex blocco sovietico. La grave miseria dei gruppi dirigenti attuali, che hanno costretto le politiche economiche e sociali nei vincoli di Maastricht, nelle ottuse politiche ultra-neoliberiste dell’austerità e nel fiscal compact – che sarà il cappio finale dell’Unione –, non può farci dimenticare l’importanza e le potenzialità di questo processo, a cui hanno guardato con interesse e speranza anche altri Paesi e continenti, nei loro stessi processi di integrazione regionale (penso al Mercosur e all’Unasur in America latina). Ma le divisioni interne e la miopia dei gruppi dirigenti politici hanno fatto sì che l’Europa non impedisse – anzi alimentasse – le guerre jugoslave e fosse incapace del suo ruolo “naturale” di pacificatore sulla sponda del Mediterraneo. In nome della stabilità e delle politiche di libero mercato i governi europei hanno sostenuto tutti i regimi autoritari mediorientali, hanno scaricato sui palestinesi i loro sensi di colpa nei confronti degli ebrei, mancando di dimostrare la loro amicizia a Israele “spingendone” i governi a un vero e duraturo accordo di pace, unica soluzione non solo per dare giustizia ai palestinesi, ma per dare certezze e sicurezza agli israeliani; non hanno saputo trovare politiche comuni – che non fossero l’intervento militare o la paura di un nuovo intervento militare – nelle guerre civili in Libia e in Siria. Sulla Siria, Putin ha sempre difeso – con successo – i suoi interessi strategici, che partono dalla salvezza del regime di Assad, ma ha avuto l’abilità di togliere Obama da un vicolo cieco – l’attacco alla Siria – convincendo il regime all’accordo sulle armi chimiche.
RDG: La CGIL ha inviato a febbraio 2014 una delegazione in Israele e Palestina guidata dalla segretaria Susanna Camusso. Qual è la situazione del conflitto palestinese-israeliano?
LT: È stata una visita unitaria, con due segretari generali, Susanna Camusso della CGIL e Raffaele Bonanni della CISL, e un aggiunto, Carmelo Barbagallo della UIL. Era in programma da tempo, ma, purtroppo, è stata molto breve, dati gli impegni italiani, soprattutto il congresso della CGIL. Teoricamente, si collocava in una fase importante, verso la conclusione del “negoziato” promosso dal segretario di Stato Usa, John Kerry. Ma purtroppo l’eterno conflitto – e l’eterno “negoziato” ? non avrà ancora una conclusione. Il “piano” Kerry non è nemmeno mai stato esplicitato e un negoziato vero e proprio non è nemmeno partito, per responsabilità prioritaria del governo di Benjamin Netanyahu, che ha continuato la sua aggressiva politica degli insediamenti, in particolare a Gerusalemme Est, dove vuole precostituire l’impossibilità fisica per i palestinesi di istituire la capitale del loro Stato. Purtroppo, c’è da aspettarsi che la debolezza e le divisioni interne dei palestinesi ne faranno, per l’ennesima volta, quelli additati come responsabili del fallimento delle trattative. Ma a uno sguardo minimamente obiettivo si vede chiaramente che non c’è stata nessuna reale disponibilità israeliana né sui confini del 1967, dove Netanyahu vuole giocare il dato di fatto di insediamenti che occupano illegalmente una gran parte di quei territori, né su Gerusalemme Est capitale della Palestina, né sul diritto al rientro dei profughi. Anche quello che doveva essere un atto di buona volontà per il negoziato – il rilascio di un altro gruppo di prigionieri politici palestinesi – è stato negato dal governo israeliano. Francamente, la situazione è disperata: Gaza continua a essere una prigione a cielo aperto, con un nuovo “assedio” ora attuato dal governo egiziano sul valico di Rafah e la distruzione di tutti i tunnel sotterranei e la popolazione della Cisgiordania chiusa dal muro di separazione, costretta alla lotteria quotidiana del passaggio ai checkpoint controllati dai militari israeliani, segmentata dagli insediamenti dei coloni e dalle strade e recinzioni a loro “protezione”. La disoccupazione è massiccia, la povertà dilaga, le risorse dell’Autorità Palestinese, che pagano molti stipendi e quel po’ di servizi possibili, dipendono in grande misura dall’Unione Europea e tendono comunque a ridursi. In questo contesto, è già un miracolo che tenga l’accordo di collaborazione tra il sindacato israeliano Histadrut e quello palestinese PGFTU, con il primo impegnato a tutelare i “migranti” palestinesi e a trasferire la metà delle loro quote di affiliazione al sindacato palestinese. Ma anche il minimo sbocco del lavoro dei palestinesi in Israele è contrastato dal governo israeliano, che favorisce la migrazione da altri Paesi, salvo trattarla comunque in condizioni di semi schiavitù.
RDG: Sempre a febbraio 2014 si è svolta a Perugia l’assemblea costituente della Rete della Pace, nuovo coordinamento nazionale che raggruppa associazioni, comitati, gruppi ed enti locali. La CGIL ha invitato le proprie strutture ad aderire e partecipare attivamente alle attività del nuovo organismo. Ma il rischio non è quello di continuare a promuovere associazioni, reti, organismi molto teorici ma poco incisivi? Questa rete come potrebbe portare un contributo allo sviluppo di una cultura di pace nelle diverse realtà (enti, scuola, sindacati) italiane?
LT: La Rete nasce e si sviluppa nell’evoluzione del percorso che è stato della Tavola della Pace. Dopo quasi due decenni, si è manifestata con forza la volontà delle grandi organizzazioni nazionali (le ACLI, l’AGESCI, l’ARCI, l’Associazione per la Pace, Legambiente, le organizzazioni degli studenti e molte altre, che mi scuso di non citare), come di molte piccole realtà diffuse, di tornare protagoniste delle mobilitazioni per la pace, a partire dalla Marcia Perugia-Assisi, ma non solo, in forma inclusiva e partecipata, senza deleghe preventive. In questa decisione ha certamente pesato anche la difficoltà a costruire posizioni comuni e mobilitarsi efficacemente su alcuni conflitti che hanno visto implicata l’Italia: dall’Afghanistan, alla Libia, alla Siria. Certo, costituire una Rete non garantisce di per sé una maggiore efficacia dell’azione, anzi, per certi versi, riconosce la “fatica” di un continuo processo di costruzione di convergenze e unità di azione, per organizzazioni, per di più, che non hanno necessariamente la mobilitazione pacifista come mission principale. Ma è appunto indicativo di un’assunzione di responsabilità e di un impegno. La prima prova corale – insieme ad altri, perché naturalmente la Rete non esaurisce il ricco panorama pacifista del nostro Paese – è stata l’Arena di Pace e Disarmo, il 25 aprile a Verona, «per ribadire l’impiego delle risorse: a favore della pace, delle spese sociali, la scuola, la sanità, i beni culturali, la sicurezza, l’ambiente… contro povertà, disoccupazione, inquinamento, consumo del territorio, variazioni climatiche:…», come dice l’appello, che ha visto il segretario generale della CGIL, Susanna Camusso, tra i primi firmatari.
RDG: Le elezioni europee dovrebbero in qualche modo mandare in Parlamento persone che rispettino il mandato di quanti, lavoratori in primis, chiedono un’Europa di pace e che propugni la pace, un’Europa che si occupi davvero della crisi che sta devastando non solo i 28 Paesi membri ma una buona parte del mondo. In questo contesto, qual è il contributo che possono dare i sindacati?
LT: Non sono in grado di dire, ovviamente, quanto i candidati seguiranno il messaggio sindacale. Ma questo è arrivato forte e chiaro. Il 4 aprile scorso, a Bruxelles, almeno 50 mila lavoratori provenienti da tutta Europa hanno riempito le strade della “capitale europea” a sostegno delle proposte che la CES ha presentato da tempo, su un piano europeo di investimenti e lavoro.
Sulla scia del “Piano del Lavoro” della CGIL e della proposta del sindacato tedesco DGB per un “Nuovo Piano Marshall per l’Europa”, la CES ha presentato da alcuni mesi un proprio piano per investimenti e lavoro in Europa, chiedendo che tra Commissione e governi ci sia un impegno a investimenti pubblici pari al 2% del PIL europeo per i prossimi dieci anni, per creare milioni di posti di lavoro di qualità attraverso nuove infrastrutture, il rafforzamento della base industriale, servizi pubblici di qualità, sistemi di welfare inclusivi e strutture innovative di ricerca, istruzione e formazione. I governi hanno caricato sul debito pubblico mille miliardi di euro per salvare il settore finanziario, responsabile della crisi. Altrettanto si stima venga perso ogni anno per frodi, evasione ed elusione fiscale. Investendo 250 miliardi di euro, come propone la CES, si potrebbero creare almeno 11 milioni di nuovi posti di lavoro di qualità.
Insomma, il nuovo Parlamento Europeo e la nuova Commissione non hanno certo l’alibi di non avere a disposizione proposte alternative. Dovranno assumersi la responsabilità storica tra continuare sul percorso – letale per l’idea stessa di Europa – dell’austerità e del fiscal compact, o cambiare decisamente rotta puntando a uno sviluppo sostenibile basato sulla creazione di posti di lavoro di qualità, sulla universalizzazione del welfare, sulla riduzione delle crescenti diseguaglianze di reddito e di condizioni di vita.
RDG: Approfondendo un po’ le relazioni tra sindacati a livello mondiale, come si stanno attrezzando le organizzazioni del lavoro di fronte a sfide che sono sempre più globali ma che hanno nel contempo ricadute molto locali? Com’è o come dovrebbe essere, in altre parole, il sindacato nella globalizzazione?
LT: Questo è l’anno del terzo congresso della Confederazione Internazionale dei Sindacati (ITUC-CSI), a Berlino dal 18 al 23 maggio. Il titolo scelto è ambizioso: Costruire il potere dei lavoratori. Lo è ancor di più pensando al punto di partenza stesso dei documenti congressuali: la forza lavoro globale è stimata in 2,9 miliardi di lavoratrici e lavoratori. Di questi, 1,7 miliardi ha un lavoro nell’economia formale, mentre l’altro 1,2 miliardi è occupato, nell’agricoltura, ma anche nell’industria e nei servizi, nell’economia informale, che in alcuni Paesi, penso all’India, costituisce oltre il 90% del mondo del lavoro. La sindacalizzazione degli affiliati alla CSI raggiunge a stento i 200 milioni, mentre altri 250 milioni sono probabilmente organizzati da sindacati non affiliati, la gran parte al sindacato ufficiale cinese ACFTU (che dichiara 238 milioni di iscritti). Insomma, la sindacalizzazione “indipendente” e “democratica” riguarda oggi solo il 7% dei lavoratori del mondo. Negli Stati Uniti, la sindacalizzazione è andata costantemente declinando dagli anni Settanta e oggi rappresenta soltanto il 7% dei lavoratori. Ovunque, nel mondo, siamo di fronte a fenomeni di precarizzazione e frammentazione del mercato del lavoro, da un lato, e ad attacchi, frontali o indiretti, alla legislazione del lavoro, ai diritti sindacali, alle condizioni della protezione sociale, alla contrattazione collettiva. A partire dagli anni Ottanta, quando reaganismo e thatcherismo sono di fatto diventati egemoni a livello mondiale, deregolazione, liberalizzazione, ritiro dello Stato dall’economia, riduzione della copertura dello Stato sociale, finanziarizzazione dell’economia sono proceduti come rulli compressori in tutte le economie “avanzate”, producendo l’esplosione delle diseguaglianze. Negli Stati Uniti, negli ultimi cinque anni, il 95% dell’aumento dei redditi è andato nelle tasche dell’1% più alto della scala di reddito. Naturalmente, ci sono Paesi dove si sono fatte politiche economiche e sociali di segno diverso: penso in particolare al Brasile e ad altri Paesi dell’America Latina. E qui i sindacati e i lavoratori sono stati contemporaneamente protagonisti e beneficiari – in termini di occupazione e di reddito – del cambiamento. In altri Paesi, specialmente in Asia e in Africa, anche laddove la crescita economia è stata particolarmente significativa, non ci sono state le stesse ricadute né sulla creazione di lavoro formale e stabile, né su un adeguato innalzamento di salari e redditi, né su un maggiore spazio organizzativo e politico per il sindacato. Dunque, quelle che avremmo chiamato le “condizioni oggettive”, non sono particolarmente favorevoli alla “costruzione del potere dei lavoratori”. Sul lato positivo della bilancia possiamo ascrivere il fatto che, almeno dal punto di vista dell’analisi e degli obiettivi, si è costruita una visione comune tra tutti i sindacati del mondo: sulla natura della crisi, sulla necessità di combattere strenuamente il neoliberismo, sulla difesa e ricostruzione di uno spazio di iniziativa degli Stati nell’economia e nei servizi, sulla creazione di lavoro formale, stabile, tutelato (quello che, nella terminologia e nella “piattaforma” dell’ILO, Organizzazione Internazionale del Lavoro, definiamo «lavoro dignitoso»), sull’estensione della protezione sociale ai lavoratori in tutto il mondo. Si sta facendo uno sforzo di maggior coordinamento su campagne internazionali per la difesa dei diritti dei lavoratori e la democrazia in molti Paesi, come una maggiore focalizzazione dell’intervento sulle grandi multinazionali e la catena della subfornitura. Ma quanto lontani siamo da una capacità di difendere anche i più basilari diritti, ce lo testimoniano eccidi come quello del Rana Plaza in Bangladesh, o lo stillicidio quotidiano di morti da lavoro schiavo dei migranti dal Nepal o da altri Paesi asiatici nella costruzione delle infrastrutture per il campionato mondiale di calcio del 2022 in Qatar. Dall’altro lato, dallo scoppio della crisi, in qualche modo il sindacato mondiale è diventato interlocutore “necessario” e più autorevole nella governance mondiale. Fondo Monetario, Banca Mondiale, OCSE, G20, Forum Economico Mondiale: non c’è più vertice che non preveda importanti e approfondite sessioni di “consultazione” e “dialogo sociale” e non c’è più istituzione internazionale che non riconosca la questione della creazione di lavoro, del ruolo del sindacato, della lotta alle diseguaglianze come temi centrali per uscire dalla crisi. Ma, come vediamo, questo non si riflette minimamente nelle politiche quotidiane, né i sindacati – più o meno in tutti i Paesi – nonostante la mobilitazione, riescono a far cambiare il corso delle cose. Negli scorsi anni è stato raggiunto un importante risultato politico. Per la prima volta nella sua quasi centenaria storia (è nata nel 1919, con la Società delle Nazioni) l’ILO ha un direttore generale che proviene dal mondo del lavoro: Guy Ryder, già segretario generale e fondatore della CSI. L’ILO, come noto, è l’unica organizzazione tripartita del sistema delle Nazioni Unite, ma è chiaro che l’elezione di un direttore generale di espressione sindacale non sarebbe potuta avvenire senza un largo consenso di governi (che hanno la metà dei voti) e delle rappresentanze imprenditoriali (che hanno un quarto dei voti, come i lavoratori). Anche questo è un riconoscimento del ruolo del sindacato mondiale e della necessità di rafforzare il mondo del lavoro, certo in un’istituzione formalmente votata a promulgare le norme internazionali sul lavoro e a monitorarne l’applicazione – come ha fatto, per inciso, richiamando il governo italiano al dovere di garantire i diritti sindacali della FIOM in FIAT e a modificare l’art. 19 dello Statuto, su ricorso presentato dalla CGIL. Insomma, la sfida per i sindacati e le loro organizzazioni internazionali è enorme: passare da riconoscimenti anche importanti, ma ancora formali e “istituzionali” alla conquista (ri-conquista, per gli europei) di stabili diritti di rappresentanza e contrattazione e di condizioni di vita e di lavoro migliori per i loro rappresentati. Che è anche la condizione vera per far aumentare la sindacalizzazione.
RDG: Il 2013 è stato l’anno del Forum Sociale Mondiale in Tunisia. Dopo la crisi dei social forum, Tunisi è stato valutato dalla CGIL come un evento molto positivo (a livello internazionale, per molti altri partecipanti, invece, il forum ha confermato la crisi del format Social Forum). In che senso molto positivo? Che appuntamenti, scadenze, impegni vi siete dati per questo 2014?
LT: La discussione sul format è senz’altro aperta e non è stata risolta dall’importante successo del Forum di Tunisi. Lo abbiamo valutato positivamente per le energie della società civile del Maghreb e del Mashrek che si sono manifestate e che non sono “rifluite”, tanto che quest’anno abbiamo avuto altri importanti appuntamenti – come il Forum sociale sulle migrazioni, sempre a Tunisi – e che si sta pensando ancora alla Tunisia, o comunque alla regione, per il prossimo Forum Mondiale, nel 2015. La “crisi” dei Forum riflette problematiche e dinamiche diverse, anche regionali, e ha a che fare con la più generale salute dei movimenti sociali. Dal punto di vista regionale, mi sembra che le maggiori difficoltà e frammentazioni nella mobilitazione sociale si riscontrino in Europa e in una parte dell’Asia. Dal punto di vista politico, assistiamo al paradosso di movimenti e organizzazioni della società civile che hanno costruito, a partire almeno da Seattle, dal 1999, dai primi anni 2000, analisi e pratiche critiche al neoliberismo e hanno in qualche modo previsto e anticipato la crisi globale, ma hanno subito un forte ridimensionamento della loro capacità di mobilitazione e una minore influenza sui processi sociali e politici proprio quando la crisi è esplosa e, anche se a volte solo strumentalmente, molte delle loro idee sono diventate quasi opinione comune. L’altro versante di questa crisi è la pressoché totale mancanza, almeno in Europa, di una “sponda” politica. Dove i movimenti sono vitali e ancora all’offensiva, come in America Latina o in alcuni Paesi della sponda sud del Mediterraneo, si innestano in processi di trasformazione politica o in “rivoluzioni” democratiche ancora in corso, per quanto contraddittorie e sempre in pericolo di essere sconfitte o represse.
RDG: Tunisia vuol dire Primavere Arabe. La Cgil come ha aiutato i movimenti per la democrazia e la libertà nei Paesi coinvolti dalle rivolte (Egitto, Tunisia, Marocco in parte, Siria) e che progetti avete, se li avete, in questi Paesi?
LT: Abbiamo lavorato e lavoriamo molto con i nostri compagni dei sindacati indipendenti dei Paesi delle “Primavere arabe”. La relazione più forte e proficua è certamente quella con l’UGTT tunisina. Lo si deve al ruolo che questo sindacato ha saputo giocare nella “Rivoluzione dei gelsomini”. In Tunisia, peraltro, non senza conflitti e contraddizioni, il processo democratico e sociale, e anche le sue ricadute istituzionali – penso alla nuova Costituzione – rappresenta sicuramente la situazione più avanzata negli esiti delle “primavere”. Non è così negli altri Paesi. Per la Siria, non si vede purtroppo fine alla guerra civile e alla brutale repressione da parte del regime di Assad. Lo spazio di cooperazione con la società civile è pressoché inesistente, a parte le importanti e doverose iniziative umanitarie, soprattutto verso i milioni di profughi. In Egitto, la democrazia è nuovamente rimessa in discussione. Nonostante il segretario di uno dei nuovi sindacati indipendenti abbia fatto parte, come ministro del Lavoro, del primo governo dei militari, la legislazione e lo spazio per i sindacati non sono migliorati, e si sono ampliate le divisioni nel sindacalismo indipendente, mentre il vecchio sindacato di regime cerca di rifarsi una “verginità”, dopo aver partecipato attivamente agli scontri di piazza Tahir, nei primi mesi delle rivolte, dalla parte di Hosni Mubarak…
In Marocco la situazione è ancora diversa e si registra la positiva convergenza di tre centrali sindacali – UMT, CDT, FDT – nella protesta e nella proposta contro le politiche del governo a guida del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo. Ma in questo quadro diversificato, la CGIL, insieme alle categorie e ai servizi (l’INCA sta lavorando molto per fornire assistenza ai migranti, a partire dai loro Paesi d’origine), è impegnata in maniera convinta a rafforzare tutti i programmi di scambio, di formazione reciproca, di sostegno materiale (dove possibile) e anche per promuovere politiche e iniziative più efficaci e coerenti sia della CSI, con l’importante lavoro del suo ufficio di Amman, sia della CES, che va un po’ “riorientata” alla sua dimensione mediterranea.
RDG: A ottobre 2013 si è svolto a Torino un seminario, promosso da CGIL, UGTT Tunisia, Progetto Sviluppo CGIL Piemonte, Programma ACTRAV del CIF-OIL di Torino nel Centro Internazionale di Formazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (CIF-OIL) di Torino. Il seminario si è concluso con la costruzione di una road map di cooperazione sindacale per la costruzione di una comune strategia d’azione nella regione del Mediterraneo. Puoi spiegarci in dettaglio di cosa si tratta?
LT: Non c’è dubbio che nel quadro sommariamente delineato sopra la questione dei diritti dei migranti è centrale, per le società e per i sindacati dei Paesi di partenza come dei Paesi di accoglienza. La chiusura della “fortezza Europa” è stata sicuramente una delle cause che ha fatto esplodere il conflitto sociale in Paesi con una popolazione molto giovane, qualificata, ma altamente disoccupata, che ha visto e vede la mancanza di prospettive sia in patria, sia attraverso un progetto migratorio. La crisi ha espulso di fatto molti immigrati, che hanno perso il lavoro e sono rientrati nei Paesi d’origine, e ha ridotto sensibilmente le loro rimesse, che in diversi Paesi costituivano una quota importante del PIL e soprattutto il sostegno alle famiglie e alle economie locali. E sulla nostra sponda del Mediterraneo le politiche securitarie hanno prodotto emarginazione, sfruttamento, fino a condizioni di semi schiavitù, mentre il mare Mediterraneo si è trasformato in un enorme cimitero per le migliaia di profughi, richiedenti asilo, migranti che vi hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le nostre coste. Il progetto su cui abbiamo lavorato a Torino e su cui stiamo lavorando con molte iniziative, multilaterali e bilaterali, è la costruzione di una rete sindacale di informazione, assistenza, promozione, rivendicazione per i migranti che vivono, lavorano, si muovono tra e nei Paesi del Mare Nostrum. Una rete, quindi, che coinvolge i sindacati della sponda sud e della sponda nord, insieme alla CES e alla CSI, e che, naturalmente, interloquisce con altre organizzazioni della società civile e chiede ascolto e garanzia dei diritti alle istituzioni nazionali ed europee.
RDG: Avete promosso, insieme ad ARCS-ARCI, FairWatch e Legambiente, l’Osservatorio sul commercio internazionale “TRADE GAME: il commercio non è un gioco”. Infatti, il commercio internazionale è un tema di grande attualità nelle politiche europee, ma non sembra ricevere sufficiente attenzione nell’opinione pubblica. Come si sta muovendo il sindacato?
LT: Il primo problema è proprio quello dell’informazione e della trasparenza. La “riservatezza”, in realtà segretezza, con cui i governi conducono i negoziati commerciali rende praticamente impossibile ai lavoratori e alla gente comune conoscere di che cosa si stratta, per materie che sono già ostiche e “tecniche”. Inoltre, le materie commerciali sono fino a un certo punto di competenza nazionale. Con il Trattato di Lisbona i negoziati commerciali e sugli investimenti sono diventati di esclusiva competenza della Commissione, e quindi i governi nazionali intervengono nelle discussioni e nei mandati del Consiglio Europeo, ma non direttamente in fase negoziale. Sul piano multilaterale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) ha trovato, dopo 12 anni di stallo, un primo accordo a Bali sul cosiddetto Round per lo Sviluppo di Doha (2001), ma anche a quel livello i Paesi europei si presentano con una posizione comune e il negoziatore è il commissario Karel De Gucht. La CGIL si è quindi posta il primo problema di monitorare e diffondere l’informazione sui numerosi negoziati commerciali e sulle loro conseguenze sui lavoratori, da qui la proposta dell’Osservatorio. Naturalmente, il punto più importante è quello di costruire e rappresentare una posizione comune dei sindacati a livello europeo e internazionale. Nessun sindacato è contro il commercio, ovviamente. Il punto sul quale c’è unità di intenti è la forte critica ai trattati di libero scambio che hanno quasi sempre pesanti ricadute negative sull’occupazione e sui diritti dei lavoratori, oltre che, spesso, su quelli alla salute e all’ambiente. Ma c’è una critica ancora più di fondo: non può reggere l’idea che siano le esportazioni a “tirare” la crescita economica. Ovviamente, non è possibile che tutti i Paesi siano esportatori netti! Quindi non esistono – come ci dice la propaganda padronale e governativa – accordi commerciali “win–win”. Al contrario, qualcuno vince e qualcuno perde, se non altro tra i diversi settori; di solito, perdono comunque i lavoratori che ricevono ulteriori pressioni al ribasso sulle loro condizioni per essere più “competitivi”, se non vedono il loro posto di lavoro delocalizzarsi all’estero, dove salari e diritti sono più bassi.
La Commissione Europea, di fronte alla crisi – che, non dimentichiamolo, riguarda anche il disequilibrio interno all’Unione tra Paesi esportatori, Germania in primis, e Paesi in deficit commerciale – punta tutto sull’export e sugli accordi di libero scambio. Ne ha già firmati con i Paesi dell’America Centrale, la Colombia, il Perú, la Corea del Sud, il Canada, diversi Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, con i cosiddetti Paesi ACP; ha in corso negoziati con Giappone, Singapore, India, altri Paesi ASEAN, e – padre di tutti i trattati – con gli Usa, il TTIP, Transatlantic Trade and Investment Partnership; senza contare gli accordi sugli investimenti, tra cui il negoziato in corso con la Cina.
La proliferazione dei trattati bilaterali o multilaterali – sull’altro oceano gli Usa stanno negoziando il TTP, Trattato commerciale transpacifico – è la risposta dei Paesi industrializzati, Usa e UE in testa, allo stallo dei negoziati OMC, dove le economie emergenti e i Paesi in via di sviluppo hanno acquisito un peso maggiore e non sono più disponibili a farsi dettare le regole della liberalizzazione interna dai Paesi più forti. In questo contesto, la CGIL, nell’ambito della CES, sta costruendo una posizione che ponga almeno dei “paletti”: difesa dei diritti del lavoro e ambientali, salvaguardia dei servizi pubblici fondamentali, chiara valutazione dell’impatto occupazionale, mantenimento dello spazio politico di decisione degli Stati, evitando le clausole di protezione degli investitori che possono condurre ad azioni di arbitrato internazionale contro le legittime decisioni politiche dei governi. I primi confronti con il governo italiano – in sede multilaterale a Bali, attraverso uno scambio epistolare sui negoziati europei – non sono purtroppo confortanti, al di là delle parole di circostanza sul “comune obiettivo” di difendere gli standard del lavoro.
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