No cannabis club a Torino, siamo italiani

by Susanna Ronconi, il manifesto | 24 Agosto 2016 9:32

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Si sequestra in misura infinitamente più ampia la sostanza meno dannosa rispetto a quelle ben più nocive se non letali», denuncia la Direzione Nazionale Antimafia (Dna) nel prendere posizione a favore della legalizzazione della canapa. La canapa viene infatti sequestrata fino a 150 volte più di altre sostanze, e la gran parte delle persone segnalate alle Prefetture consuma canapa. Molto più utile sarebbe, per la Dna, passare da una inefficace repressione a forme di controllo “civili”. Non sembra pensarla così la Procura di Torino, che all’alba del 18 agosto in una sonnolenta Torino ferragostana, ordina una irruzione al Centro sociale Gabrio, trovandovi 60 piante di marijuana e una modesta quantità di foglie essiccate. Due persone denunciate ex articolo 73 della legge sugli stupefacenti e sequestro delle piante. La pratica dell’autocoltivazione è da sempre pubblicamente sostenuta dal Gabrio, uno dei centri sociali italiani più attivi, informati e competenti nel discorso e nella pratica antiproibizionisti.

L’appuntamento annuale della Festa della semina rende esplicita questa scelta, lavora per sottrarre alle narcomafie un mercato lucroso e si spende per la promozione di un consumo consapevole, più sicuro e informato attraverso una cultura della riduzione dei rischi. «Siamo consapevoli – dicono – che praticare coerentemente l’antiproibizionismo significa disobbedire a leggi ingiuste e sappiamo che può portare ad affrontare forme di repressione. Siamo d’altronde sicuri che l’autoproduzione sia l’unico sistema per scardinare il sistema delle narcomafie da un lato e del controllo sociale oscurantista dall’altro.

L’autoproduzione è condivisione, non spaccio». Le 60 piante non sono destinate al mercato, ma a una condivisione solidale e gratuita: nessun contributo della polizia torinese alla lotta ai trafficanti, in questo caso. Sull’autocoltivazione ad uso personale da decenni si alternano sentenze nell’una o nell’altra direzione, che espongono i consumatori a una lotteria scandalosa sul piano del diritto e dei diritti. La politica sta faticosamente cercando di colmare questa colpevole assenza, portando al dibattito nell’Aula di Montecitorio la proposta di legalizzazione dell’intergruppo dei 300 parlamentari, mentre da marzo va avanti la campagna promossa da alcune associazioni – tra cui Luca Coscioni, Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione – per una proposta di legge di iniziativa popolare (www.legalizziamo.it).

I due testi si richiamano, ma anche si differenziano su alcuni aspetti, e la storia del Gabrio ne mette in evidenza soprattutto uno: quello della liceità dell’autocoltivazione per uso personale individuale e di gruppo, che conviva con la regolazione della produzione e della vendita a livello commerciale.

La proposta delle associazioni, oltre ad addolcire l’impeto monopolista di quella parlamentare prevedendo, per la parte commerciale, un più articolato sistema di licenze, prevede non solo la coltivazione personale (regolamentata se oltre le 5 piante) ma anche quella di gruppo, con i Cannabis Social Club (Csc) che non debbono superare i 100 soci, non devono prevedere attività commerciali e sono sottoposti a precise regole di gestione. Una differenza che non solo esprime una cultura più attenta alle libertà dei singoli, ma che è capace di cogliere e valorizzare dinamiche sociali “dal basso”. Se si fosse in Spagna, in Belgio o in Slovenia già oggi la coltivazione e condivisione del Gabrio sarebbe un Csc, legale o para legale o tollerato, a seconda dei contesti nazionali.

E, a proposito, ai sensi della legge di iniziativa popolare – ma anche dei Csc europei – le 60 piante sequestrate sarebbero lecite se il gruppo fosse di 12 persone, 5 piante a testa. Al Gabrio i soci sono molti di più. Se non fossimo in Italia, sarebbero moderati e virtuosi.

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