Referendum, gaffe e milioni

by Andrea Fabozzi, il manifesto | 10 Agosto 2016 9:16

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«Chi oggi propone di votare No al referendum costituzionale non rispetta il lavoro del parlamento». Con la conclusione delle verifiche della Cassazione, la campagna elettorale entra nel vivo – ma il governo aspetterà almeno un mese prima di fissare la data delle urne, anche per rimandare il periodo di par condicio e continuare a occupare gli spazi radio e tv. La ministra per le riforme Maria Elena Boschi esordisce però con una brutta gaffe. Dimentica o nasconde che la possibilità di bloccare con referendum la riforma fa pienamente parte delle procedure costituzionali. Poi tenta una correzione problematica: «Non mi riferivo a chi legittimamente deciderà di votare No ma a chi chiede di ripartire daccapo». È lo stesso. Invitare a votare No è ugualmente legittimo, non serve nemmeno ricordare che lo stesso Renzi lo fece in occasione del precedente referendum costituzionale (contro la riforma del centrodestra). È l’articolo 138 della Costituzione che così prevede, l’articolo che la ministra si compiace di aver «rispettato in toto», almeno fin qui.

Quella di Boschi è una gaffe, ma racconta bene del clima di intolleranza verso chi si oppone alla riforma. Prenderà forma, si è saputo ieri, anche nel manifesto ufficiale della festa nazionale dell’Unità. Che praticamente sarà la riproduzione di una grande scheda elettorale, con la X sul Sì e lo slogan «L’Italia che dice Sì». Una scelta «sguaiata» nelle parole della minoranza bersaniana del Pd, che accusa la dirigenza del partito di aver fatto «una scelta miope e un errore politico grave». «I sondaggi ci dicono che circa un terzo degli elettori di centrosinistra sono orientati per il No – fa notare tra gli altri il senatore della minoranza Federico Fornaro -, ignorarli o peggio demonizzarli non è utile sia in vista del referendum sia delle prossime elezioni politiche». La minoranza Pd dimentica che la stesa scelta era stata fatta (senza polemiche) l’anno scorso, quando lo slogan della festa nazionale dell’Unità a Milano era «C’è chi dice Sì». Nel simbolo non c’era la croce ma un enorme Sì eclissava il logo del partito. Quest’anno la festa nazionale si terrà a Catania e la chiuderà Renzi, l’11 settembre.

Renzi ieri ha visitato più di una festa dell’Unità in Emilia Romagna, naturalmente parlando del referendum. E confermando la scelta di rimandare il più possibile il voto. «Sarà il 13 o il 20 novembre», ha detto, aggiungendo che «la data non è la priorità degli italiani». Non ha spiegato perché fino a un mese fa era lui a promettere che il referendum si sarebbe tenuto «il prima possibile»; la data che aveva indicato era il 2 ottobre. La ragione ufficiale è quella di non incrociare la sessione di bilancio in parlamento. Ma dal momento che ci sono i tempi per anticiparla, la ragione reale – oltre alla possibilità di poter disporre di molti mesi di campagna senza par condicio – è che Renzi ha bisogno di tempo e di qualche colpo d’ala nella legge finanziaria per risalire la china dei sondaggi. Oggi il No è ancora in testa. Il presidente della Repubblica ha fatto capire di condividere questa strategia, perché pensa sia più saggio mettere in sicurezza almeno in un ramo del parlamento (la camera) la legge di stabilità, prima del referendum. Ragione per cui non sembra destinato a fare molta strada l’appello che ogni giorno gli rivolgono i 5 stelle. Ieri è stato Roberto Fico a chiedere al capo dello stato di «impedire al premier di rallentare la procedura, per favorire la massima partecipazione non si può votare a ridosso della stagione invernale».

Elemento centrale del cambio di strategia renziano è la rinuncia alla «personalizzazione». Ieri lo stesso presidente del Consiglio che aveva cominciato la campagna spiegando che «solo chi mi odia può votare no» (mentre la ministra Boschi aggiungeva «senza ipocrisie» che sarebbe stato un referendum sul governo), ha ammesso: «Anch’io ho sbagliato a dare dei messaggi, ho sbagliato a personalizzare troppo, questa è la riforma degli italiani, non porta il mio nome ma quello di Giorgio Napolitano». E così, davanti ai militanti Pd, il presidente del Consiglio ha esaurito il novero delle posizioni possibili. Prima ha «personalizzato», poi ha detto «non sono io a personalizzare, sono quelli del No che lo fanno contro di me», poi ha ammesso di aver sbagliato a personalizzare.
Nel nuovo corso, Renzi promette «una strategia semplice: dire la verità». E invece non rinuncia al vecchio proposito: «Sarò demagogico». E così spiega che i risparmi generati con la riforma costituzionale «saranno tolti ai costi della politica e messi sul fondo per la povertà». A quanto ammontano? A 500 milioni, hanno detto ieri prima Boschi e poi Renzi, che solo qualche mese fa insistevano sul miliardo. «Sono i conti della ragioneria generale dello stato», ha detto la ministra. La stessa che mesi fa aveva girato al parlamento la reale previsione della ragioneria. Indicava risparmi per 49 milioni.

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