Per una sociologia dei nuovi diritti umani

Per una sociologia dei nuovi diritti umani

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Intervista a Paolo Iagulli a cura di Antonio Chiocchi (dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)

Con il professor Paolo Iagulli, docente dell’Università di Bari, esploriamo quella sorta di interzona conflittuale che si erge tra il “dover essere” dei diritti umani e la richiesta che di essi la società riformula di continuo. Le enunciazioni dei diritti non sono in rapporto di continuità e di armonia con la loro effettività storica e politica. Notoriamente questo è un dilemma non soltanto per l’esercizio dei diritti umani in senso stretto, ma per la vigenza dei diritti più in generale.

Con la sociologia dei diritti umani ci collochiamo sul secondo fronte del dilemma: cioè, sul versante del repertorio delle rivendicazioni dei diritti umani. Questa linea di penetrazione ci consente di respirare l’humus della materialità incandescente dei nuovi diritti umani e la persistenza e/o la crisi di quelli vecchi. La sociologia dei diritti umani, specifica Iagulli, ha esattamente il compito di descrivere questo conflitto e di esprimere le onde sussultorie dei cambiamenti che, attraverso questi interstizi delicatissimi, si insinuano nella trama del vissuto giuridico-relazionale della società. Le sue ricerche sui “diritti riproduttivi” e sulla fecondazione artificiale scandagliano appunto queste zone.

È sostanzialmente vero che la ricerca di Iagulli, come lui stesso tiene a precisare, si colloca ben dentro il patrimonio pionieristico tracciato da Renato Treves, Vincenzo Ferrari e Norberto Bobbio; ma è altrettanto vero che essa propone affinamenti e riaggiustamenti di questo patrimonio. E ciò, a nostro avviso, avviene soprattutto dove Iagulli tematizza il nesso stringente tra mutamento sociale e genesi dei nuovi diritti umani. Indubbiamente, i diritti umani non sono riducibili a un astratto imperativo categorico. Ma possiamo aprire un nuovo cammino di ricerca, di riflessione e trasformazione, se, solcando il pianeta dei nuovi diritti umani, impariamo a leggere il mutamento sociale. Leggere e descrivere la realtà dei nuovi diritti umani è come tastare il polso ai tempi che abbiamo ereditato, che viviamo e a cui siamo consegnati come destino.

 

Redazione Diritti Globali: In tema di diritti umani si apre un conflitto tra diritti concorrenti che necessitano di un riequilibrio. Lei nel suo ultimo libro, sulla scorta della lezione di Norberto Bobbio, lo ha messo bene in evidenza. Il suo approccio ai diritti umani, se abbiamo colto bene, parte dall’esigenza di ridefinire e mettere in questione il loro carattere di assoluto normativo che non riesce a farsi universo plurale. Nasce anche da qui l’esigenza di elaborare una sociologia dei diritti umani?

Paolo Iagulli: La sociologia dei diritti umani cui faccio riferimento nel mio libro Diritti riproduttivi e fecondazione artificiale. Studio di sociologia dei diritti umani è effettivamente quella delineata da Norberto Bobbio (si vedano alcuni degli scritti contenuti in L’età dei diritti del 1990), ma anche e forse soprattutto da Renato Treves, padre della sociologia del diritto italiana, e Vincenzo Ferrari: penso in particolare al volume collettaneo da loro curato nel 1989 Sociologia dei diritti umani, un testo ancora fondamentale. E lo è anche perché, se prima di allora la sociologia si era interessata poco ai diritti umani, mi sembra che quella che possiamo chiamare “sociologia dei diritti umani” non abbia avuto neppure dopo particolare seguito. Anche se certo non sono mancati specifici contributi sociologici sui diritti umani anche rilevanti: penso, ad esempio, ai lavori di Maria Rosaria Ferrarese o di Tamar Pitch. Peraltro, lo stesso modo in cui mi sono occupato io, nel mio libro, di sociologia dei diritti umani è decisamente circoscritto: non ho detto nulla di nuovo rispetto a Bobbio, Treves e Ferrari, ma solo utilizzato le loro riflessioni come base per uno spinoso tema bioetico quale certamente è quello della fecondazione artificiale.

Avvicinandoci alla domanda, possiamo dire, anzitutto, che la sociologia dei diritti umani si occupa in particolare di come si formano i diritti umani, della loro attuazione (o meglio, spesso, della loro mancata attuazione, cioè della distanza tra proclamazione ed effettiva tutela) e del loro conflitto, che nel caso di problematiche bioetiche è quasi inevitabile. In linea ancora generale, proprio Bobbio ha spiegato in modo magistrale come non esistano diritti umani assoluti, eccezion fatta per il diritto a non essere sottoposto a schiavitù e a non essere torturato. Nella maggior parte delle situazioni in cui viene in questione un diritto dell’uomo accade che due diritti altrettanto fondamentali si fronteggino: si pensi, per limitarci a un solo esempio, al diritto d’espressione, da un lato, e al diritto a non essere ingiuriati, diffamati e così via, dall’altro. E ciò, sul terreno della bioetica, risulta decisamente amplificato. Ebbene, la sociologia dei diritti umani, che è deputata a dirci non quali dovrebbero essere i diritti fondamentali, ma quali sono le istanze che la società propone come tali, non fa altro, appunto, che consegnarci una lista di rivendicazioni che, nel campo del quale mi sono occupato io, vale a dire la bioetica, si caratterizzano per una notevole conflittualità: è il caso, emblematico, del diritto dei genitori alla fecondazione artificiale, possibile espressione dei diritti alla procreazione, alla famiglia e alla salute, da un lato, e dei diritti del nascituro, dall’altro. Proprio questo conflitto costituisce il tema principale del mio libro.

 

RDG: In chiusura del suo libro, evocando le parole del filosofo del diritto Michel Villey, ci ricorda che l’esercizio separato dei diritti genera ingiustizie. La sociologia dei diritti umani può aiutare a individuare e correggere il separatismo e l’ingiustizia dei diritti, a partire dai diritti umani? E ancora: l’ingiustizia dei diritti non è collegabile anche alle disuguaglianze sociali che il diritto stesso partorisce, riducendosi ad astratta macchina di amministrazione e giuridificazione del vivente?

PI: Ripeto: la sociologia dei diritti umani, che ha un compito innanzitutto descrittivo, ci dice quali sono i diritti umani in formazione. Proprio per ciò, nel momento in cui evidenzia quali sono tali diritti, essa può aiutare, come lei dice, a individuare e correggere il separatismo e l’ingiustizia dei diritti. Può farlo perché non parte da premesse astratte o ideologiche, ma da una lettura della realtà sociale particolarmente attenta a rilevare quelle istanze che sono strettamente legate al mutamento sociale. La sociologia del diritto, possiamo dire, si fa sociologia dei diritti umani quando mette a tema il nesso tra mutamento sociale e nascita di nuovi diritti. Lo specifico della sociologia dei diritti umani, che non è certo l’unica disciplina a tematizzare tali diritti, è quello, tra l’altro, di rilevare, per usare un termine caro a Bobbio, la moltiplicazione dei diritti. Rinvio al suo già citato L’età dei diritti o all’altrettanto importante Teoria dei diritti fondamentali di Gregorio Peces-Barba per un approfondimento di questo e di altri processi di evoluzione dei diritti dell’uomo. Qui mi limito a evidenziare che il processo di moltiplicazione dei diritti non è solo il tema forse più interessante della sociologia dei diritti umani per chi si occupa di nuovi diritti: è a questo processo (e a quello a esso legato della loro specificazione) che i cosiddetti nuovi diritti sono, infatti, riconducibili. Rilevare la moltiplicazione dei diritti contribuisce anche a correggere il separatismo e l’ingiustizia dei diritti perché ci mette di fronte a istanze diverse, spesso conflittuali, che devono però poter essere confrontate e almeno tendenzialmente risolte. Lei ricordava giustamente il monito di Villey: «l’esercizio separato dei diritti genera ingiustizie». È proprio così: ogni diritto va confrontato con i diritti potenzialmente in conflitto, pena la trasformazione di un diritto in un’ingiustizia. Ebbene, sul terreno della bioetica il monito di Villey risulta ancora più valido e, direi, obbligante: non possiamo, nel caso del tema di cui mi sono occupato, considerare il diritto alla fecondazione artificiale degli aspiranti genitori disgiunto dai diritti del nascituro, e viceversa, naturalmente. Pena, appunto, un’inevitabile ingiustizia agli uni o agli altri. Certo, quale sia il punto di equilibrio e quindi di (tendenziale) giustizia è naturalmente discutibile: quanto ho cercato di fare nella seconda parte del mio libro, dopo aver “descritto” i diritti riproduttivi, tra cui in particolare il diritto alla fecondazione artificiale, è stato proprio “valutare” i diritti in gioco e conseguentemente proporre una configurazione del diritto alla fecondazione artificiale come diritto fondamentale ma relativo, che non può, cioè, non tenere conto anche dei diritti del nascituro. Su questo tema specifico mi fermo, peraltro, ovviamente qui.

Quanto alla seconda parte della domanda, ho, credo, in qualche modo già risposto: il diritto (positivo) deve dire la sua solo dopo aver attentamente considerato tutte le istanze in gioco, le istanze di tutti i soggetti. Se non lo fa, la legislazione che ne risulta rischia di essere ingiusta: per rimanere al caso della fecondazione artificiale, direi che sono esemplari al riguardo le molte censure (anche) di costituzionalità cui è stata sottoposta la nostra legge 40 del 2004.

 

RDG: Riconsideriamo una questione elementare e a lungo dibattuta: avere diritti fondamentali significa che altri hanno obblighi fondamentali. Si crea un campo di simmetrie, ma anche di interdipendenze. Se il mio diritto dipende dall’obbligo dell’altro, vuol dire che diritto e obbligo debbono coesistere: l’uno non si dà senza l’altro. Trascorriamo qui verso una costellazione, insieme, sociologica ed etica. Per continuare a ispirarsi alle sue ricerche, quanto pesano le emozioni nell’esercizio dei diritti? Quale ruolo, soprattutto, possono giocare nel superamento del separatismo che genera ingiustizie?

PI: Voglio qui andare subito, senza troppe premesse, al cuore della domanda, interessante e non solo perché io mi occupo anche, e in questo periodo soprattutto, di emozioni. La sociologia delle emozioni è una branca sociologica che, ormai affermata e largamente riconosciuta ad esempio negli Stati Uniti, sta cominciando a riscuotere anche da noi un certo interesse. Ma non è questa naturalmente la sede per approfondimenti al riguardo.

Mi tengo pertanto strettamente alla sua domanda. La risposta potrebbe essere quella che segue. Le emozioni giocano una parte molto importante, più che nell’esercizio dei diritti, nell’argomentare la loro (eventuale) esistenza. Ricordo che la sociologia dei diritti umani rileva non solo l’esistenza di diritti riconosciuti, ad esempio affermati nelle Carte dei diritti internazionali, rispetto ai quali può ad esempio ricostruirne la genesi, l’articolazione, il grado di effettiva tutela e così via, ma anche di istanze, rivendicazioni che non sono ancora riconosciuti a livello di diritto positivo o comunque transnazionale (e che magari non lo saranno mai). È il caso, anche in questo caso, di molte rivendicazioni bioetiche. I diritti e le pretese bioeticamente rilevanti amplificano una caratteristica che è, per la verità, propria dei diritti umani tout court, quella di essere spesso affermati sulla base di argomenti etici forti e molto carichi emotivamente, che si ritiene cioè, come ha ben affermato Vincenzo Ferrari, che possano incontrare un vasto consenso in virtù di una adesione a, di una condivisione di, valori ritenuti più o meno insuperabili. Ebbene, da questo punto di vista le emozioni possono giocare, per così dire, brutti scherzi. Innanzitutto, sul piano puramente conoscitivo, possono ostacolare un’adeguata comprensione dei diritti umani. Sul piano pratico-operativo, poi, ben lungi dal favorire un superamento del “separatismo che genera ingiustizie” di cui parlavamo prima, le emozioni possono acuire tale separatismo: quando ci si lascia trasportare emotivamente dalle proprie convinzioni e magari si attribuiscono loro inattaccabili o, come si dice, “non negoziabili” valenze etiche, il “separatismo” è bello e servito… È necessaria molta “ragione” per individuare i buoni e cattivi argomenti dei diritti in gioco al fine di effettuarne un calibrato bilanciamento. Del resto, proprio questo sarebbe il compito di un buon legislatore.

A voler sintetizzare, o forse banalizzare, si potrebbe dire questo: io mi occupo di sociologia delle emozioni perché ritengo sia un campo promettente, fertile e da noi ancora poco esplorato; tuttavia, nel campo della sociologia dei diritti umani e in particolare dei diritti bioeticamente rilevanti, sarebbe bene congelarle il più possibile, le emozioni.

 

RDG: Dal nostro osservatorio, i diritti umani hanno un orizzonte globale, per due motivi assai semplici. Il primo è dato dal fatto incontrovertibile che, ormai, il loro teatro di azione è il globo. Il secondo è rappresentato da un fatto storico altrettanto incontestabile: la loro semantica è regolata da processi globali, in virtù dei quali essi si riattraversano e codeterminano reciprocamente, anche in via conflittuale. Questa interconnessione può aprire un’epoca nuova, nella quale la rivendicazione e l’esercizio dei diritti possono finalmente accorpare in sé realismo, utopia ed efficacia?

PI: Se non ho capito male, la domanda allude anzitutto a un problema relativo ai diritti umani in realtà annoso, quello del rapporto tra universalità e particolarità. Annoso perché i diritti umani sono, per definizione, diritti di tutte le persone (al netto delle molte precisazioni formali e sostanziali che si potrebbero fare e per le quali rinvio, soprattutto, al costante e importante lavoro di Luigi Ferrajoli: penso al rapporto tra le Dichiarazioni dei diritti, il cui oggetto sono diritti quasi tutti attribuiti alle persone, cioè a tutti gli esseri umani, e l’effettivo ancoraggio degli stessi diritti, in realtà, alla cittadinanza), e quindi hanno un orizzonte globale. E ciò prima ancora quindi dell’irrompere della globalizzazione. Ebbene, qui non è ovviamente possibile approfondire il significato degli stessi termini del discorso (globalizzazione, universalità, e così via), ma se il tema è quello della universalità dei diritti, esso implica, in qualche modo da sempre, quello della particolarità degli stessi, e quindi della loro conflittualità. Peraltro, è indubbio che il “multiculturalismo” dei diritti umani, attestato ad esempio dalle relativamente recenti Carte dei diritti africana e araba, che esprimono valori e visioni loro proprie, amplifichi la questione: si può davvero parlare di diritti umani universali oppure i diritti non possono che essere espressione di una certa cultura e quindi appannaggio solo di un certo tipo di essere umano e non già di un altro? La questione è vecchia, perché le critiche portate all’universalismo dei diritti umani, diritti che, si afferma, sarebbero in realtà storicamente il frutto dell’etnocentrismo occidentale, sono ben note alla letteratura sui diritti umani.

Direi, in sintesi, con le parole di Alessandra Facchi (si veda la sua utilissima introduzione alla storia dei diritti umani edita da il Mulino), che l’universalità dei diritti può considerarsi «non come un dato, ma come un obiettivo raggiungibile attraverso il confronto e il dialogo». Utopia? Mi piacerebbe rinviare, ottimisticamente, a un recente e interessante volumetto di Francesco Viola (Diritti umani e globalizzazione del diritto), secondo cui, mentre i diritti umani tendono in qualche modo a particolarizzarsi, il diritto positivo, attraverso i caratteri della internazionalità e della sopranazionalità, tende a universalizzarsi e, con ciò, come notava già parecchi anni fa William Evan tematizzando il carattere transnazionale dei diritti umani, si avvia anche a farsi un po’ più efficace; inoltre, queste tendenze, afferma Viola, e siamo anche qui sul terreno dell’efficacia, devono considerarsi non come contraddittorie, bensì come due facce della stessa medaglia: viste congiuntamente, esse escludono, infatti, sia l’universalismo astratto e decontestualizzato che il particolarismo chiuso in se stesso.

 

RDG: Forse, oggi, c’è l’esigenza di riscrivere la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” del 1948, pur non sottovalutando i suoi eccezionali meriti storici, politici ed etici. Se questo dovesse risultare vero, da quali realtà è urgente ricominciare? Come l’immaginazione sociologica deve riattrezzarsi, per rendersi idonea a un compito così intimo alla ricerca e alla realizzazione della libertà?

PI: Considerando i meriti ricordati e anche che la “Dichiarazione” non ha mai avuto un valore giuridicamente vincolante (carattere proprio invece, come è noto, dei “Patti” del 1966), non la riscriverei affatto. Quello che voglio dire è che la Dichiarazione ha avuto lo straordinario merito di inaugurare il diritto internazionale dei diritti umani, al quale si deve, poi, la precisazione e l’ampliamento del catalogo dei diritti in essa presente: penso alle molte Convenzioni, anch’esse vincolanti, che sono seguite alla Dichiarazione (dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne del 1979 alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, per ricordarne solo due). Non solo: la Dichiarazione resta un quadro di riferimento fondamentale anche rispetto a quella cosiddetta regionalizzazione dei diritti umani che ha accompagnato e seguito la Dichiarazione; penso, per quanto riguarda il nostro continente, alla “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali”.

Non c’è stato quindi bisogno di “immaginazione sociologica” per aggiornare la Dichiarazione e il suo catalogo. E qui vengo rapidamente al tema che più mi interessa: che il catalogo dei diritti umani sia in evoluzione sta in quel loro carattere storico, che, come sopra accennato, è un compito della sociologia (dei diritti umani) tematizzare. Ebbene, la bioetica e più in generale lo sviluppo tecnologico offrono, per così dire, materia fondamentale che è stata raccolta da carte non solo “generali” come la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, ma soprattutto “specializzate” come la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (o Convenzione di Oviedo) approvata dal Consiglio d’Europa nel 1995 o la Dichiarazione universale su bioetica e diritti umani approvata dall’UNESCO nel 2005.

Certo, i problemi in materia di bioetica sono assai più complessi delle dichiarazioni, più o meno di principio, contenute nelle Carte dei diritti a essa dedicate. Per quanto riguarda la mia disciplina, non scomoderei neppure in questo caso la “categoria” della immaginazione sociologica; direi solo che la sociologia può modestamente contribuire, insieme ad altre discipline, a chiarire, analizzare e approfondire temi e problemi riconducibili alla bioetica, che è, come è risaputo, un ambito largamente interdisciplinare.



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