Verso una democrazia dei diritti umani

Verso una democrazia dei diritti umani

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Intervista a Antonio Mascia a cura di Antonio Chiocchi (dal Rapporto sui Diritti Globali 2014)

Abbiamo condotto con Marco Mascia una ricognizione sulle ferite inferte dalla crisi globale ai diritti umani. Con lui, abbiamo percorso il sistema di asimmetrie e disuguaglianze che essa ha tracciato nel mondo.

La crisi globale dei diritti umani ha insediato un processo globale di esclusione che, a sua volta, ha evidenziato la caduta di tensione dei princìpi e delle prassi della democrazia. Alla fine, un modello di sviluppo basato sulla diseguale distribuzione delle risorse ha mandato a regime la perdita di effettività del sistema internazionale dei diritti umani.

A ciò si può riparare, secondo Mascia, solo con una mutazione significativa: la transizione da un sistema internazionale statocentrico a un altro umanocentrico, meglio adatto a garantire la costruzione di un ordine mondiale di pace e giustizia. Il passaggio, però, come da lui precisato, impone necessariamente la democratizzazione delle istituzioni, delle procedure e delle politiche della global governance.

Insomma, vanno imposte le ragioni dello Stato di diritto e della pace a livello internazionale, attraverso la legittimazione e la legittimità che la democrazia soltanto può dare ai sistemi e agli attori decisionali. Il potere dei mercati e della finanza sulle persone e sui popoli, ci dice Mascia, può essere fermato e sconfitto solo dalla democrazia, poiché solo essa può rompere quel monopolio intergovernativo che si sottrae pervicacemente a ogni confronto e verifica di legittimità popolare e istituzionale.

Senza democrazia e democratizzazione delle istituzioni internazionali, questo il messaggio che lancia Mascia, il sistema dei diritti umani entra in crisi. Prendono il sopravvento le logiche autoreferenziali di mercati finanziari e decisori intergovernativi poco trasparenti e niente affatto dialoganti. L’assalto delle dinamiche competitive che hanno squassato il mondo con guerre, ingiustizie e disuguaglianze è passato attraverso queste feritoie.

 

Redazione Diritti Globali: Il panorama disegnato dalla crisi globale è stato sufficientemente esplorato dal punto di vista economico, politico, sociale e giuridico. Poche sono state, però, le analisi stringenti sul nesso, pur evidente, che si è stabilito tra crisi e diritti. Un numero ancora minore di osservatori ha registrato che l’evoluzione della crisi sia stata l’indicatore migliore dell’involuzione dei diritti. Questa disattenzione come è interpretabile?

Marco Mascia: La crisi economica e finanziaria ha ferito direttamente i diritti economici e sociali (dal diritto al lavoro al diritto all’assistenza in caso di bisogno). L’impatto negativo è stato anche sui diritti civili e politici in ragione del fatto che tutti i diritti umani sono fra loro interdipendenti e indivisibili. Le risposte date dai governi e dalle istituzioni economiche e finanziarie internazionali sono state fallimentari perché non hanno messo al centro la persona con il suo corredo di diritti fondamentali, il lavoro, la formazione e lo sviluppo umano, ma le banche e il sistema di potere che ruota attorno ad esse, la competitività e l’austerità. La crisi ha contribuito a rendere sempre più asimmetrica l’interdipendenza globale potenziando un sistema di rapporti fortemente squilibrati, al cui interno i più forti in partenza hanno rafforzato la loro posizione di ascrizione, anche usando l’interdipendenza come obiettivo-strumento di politica, mentre i più deboli in partenza hanno visto ulteriormente indebolita la loro condizione. Ciò ha provocato un processo globale di esclusione sociale: cittadini, lavoratori, comunità locali, popoli, imprese non competitivi sono stati abbandonati al loro destino. Va inoltre sottolineato che l’interdipendenza è figlia del “vecchio” ordine internazionale, fondato su una diseguale distribuzione delle risorse e su una iniqua divisione internazionale del lavoro, di quell’ordine che ha prodotto il modello di sviluppo occidentale all’insegna di modernizzazione e sviluppo e lo ha per anni imposto al mondo. In quanto tale, “il” modello è oggi superato, ma ha prodotto danni ingentissimi.

 

RDG: I diritti umani sono stati uno dei bersagli principali della crisi globale: la nuova geografia dei poteri ha disegnato una nuova geografia dei diritti umani. Quanto più estensiva è stata la prima, tanto più restrittiva è risultata la seconda. Siamo ai primi bagliori di un nuovo ordine mondiale ancora più punitivo dei diritti umani? Le violazioni e gli abusi, da eccezione, tenderanno a farsi regola?

MM: Soprattutto all’inizio della grande crisi si è parlato della necessità di nuove regole, ma poi il discorso è caduto. Il fallimento del neoliberismo è ampiamente avvertito. Parimenti fallita è la strategia della “guerra facile” portata avanti per un ventennio a partire dalla guerra del Golfo del 1991. Non vedo alternative al modello di ordine mondiale rilanciato dalla dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del settembre 2012 sullo stato di diritto a livello nazionale e internazionale.

L’approccio della via istituzionale alla pace, dando priorità alla democratizzazione della politica internazionale, concentra necessariamente l’attenzione su quegli aspetti della costruzione di un ordine mondiale di pace e di giustizia che attengono ai principi, alla struttura e alle modalità di funzionamento degli organismi internazionali e al ruolo di attori diversi dagli Stati. L’assunto di fondo è triplice:

  • primo, la democratizzazione di istituzioni, procedure e politiche di global governance è variabile indipendente, cioè fattore causativo e condizionante, rispetto ai processi di pacificazione e alle politiche di human development, human security, eguaglianza di genere, sostenibilità ambientale, nonché alle istituzioni e procedure di garanzia dei diritti internazionalmente riconosciuti;
  • secondo, è impossibile parlare di democrazia e di democratizzazione se si prescinde dal riferimento ad ambiti istituzionali che ne consentano la realizzazione: che si tratti di democrazia rappresentativa o partecipativa o diretta. La grossa sfida sta nel far sì che gli ambienti istituzionali si rendano idonei a recepire la pratica della democrazia, innanzitutto al loro interno;
  • terzo, il potenziamento dell’ONU e dell’intero sistema di Agenzie specializzate così come di qualsiasi altra organizzazione multilaterale presuppone, per esigenze sia di qualità sia di efficacia, più legittimazione diretta degli organi che decidono in sede sopranazionale e più partecipazione popolare alle loro prese di decisione.

Nel corrente linguaggio internazionale ricorrono espressioni assolutamente nuove per la politica internazionale quali “international rule of law” (principi di stato di diritto) e sussidiarietà. Occorre profittare di queste novità lessicali per estrarne le logiche conseguenze operative: non si può parlare di stato di diritto e di sussidiarietà se lo schema istituzionale di riferimento ignora la legittimazione diretta e la rappresentatività degli organi che decidono, la partecipazione politica alle prese di decisioni, forme adeguate di garanzia dei diritti fondamentali, i soggetti primari del polo territoriale e del polo funzionale della sussidiarietà.

L’iniezione della pratica democratica nel sistema istituzionale internazionale è l’unica via per rompere il monopolio intergovernativo, a tendenza sempre più verticistica e auto-referenziale, della politica internazionale.

Il riconoscimento giuridico internazionale dei diritti umani ha innescato, in punto di logica e in punto di diritto, il problema della democratizzazione internazionale. In punto di fatto, l’esistenza di molteplici reti transnazionali, organizzate e non, di società civile globale, da un lato, e di un complesso sistema, mondiale e regionale, di organizzazioni intergovernative, dall’altro, dà una risposta concreta al quesito del chi (soggetti) e del dove (sedi istituzionali) della democrazia internazionale correttamente intesa. In altri termini, democratizzare le istituzioni internazionali è, oggi, una possibilità reale.

 

RDG: Nel nuovo scenario internazionale e nel nuovo immaginario simbolico materializzati e codificati dalla crisi globale, sta pericolosamente nascendo un’indifferenza diffusa alla vita, al destino e ai diritti dell’Altro, fino a obliarne il carattere di sacralità. In questo clima, la voce della pace diventerà sempre più flebile e le relazioni internazionali saranno governate dall’insicurezza, dal rischio, da guerre locali endemiche e dalla violenza? L‘esplosione della “questione Ucraina” aggiungerà tasselli nuovi a questo mosaico?

MM: C’è poca attenzione dei mass media su processi positivi in atto. Ne indico alcuni. Nelle università, in quasi tutti i Paesi del mondo, aumentano gli insegnamenti dedicati ai diritti umani. Nell’Annuario italiano dei diritti umani 2013 sono stati censiti 102 insegnamenti in 39 Università, 6 Centri universitari (il più antico è quello dell’Università di Padova, istituito nel 1982), 11 corsi di dottorato e 8 di master.

L’11 maggio 2010 il Consiglio d’Europa ha adottato la Carta europea sull’educazione per la cittadinanza democratica e l’educazione ai diritti umani e il 19 dicembre 2011 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato la Dichiarazione sull’educazione e la formazione ai diritti umani.

A Ginevra, al Consiglio diritti umani si sta mettendo a punto una Dichiarazione per il riconoscimento della pace come diritto fondamentale della persona e dei popoli. Alcuni Stati potenti che non intendono rinunciare allo ius ad bellum si oppongono, ma aumenta il fronte delle ONG. La posta in gioco all’ONU è molto alta poiché investe direttamente la concezione dell’ordine mondiale e della stessa “forma Stato” nei suoi tradizionali attributi di sovranità. Questo spiega perché il diritto umano alla pace è tuttora privo di formule, esplicito riconoscimento nel vigente diritto internazionale. Non figura infatti nell’elenco dei diritti fondamentali contenuto nei due Patti internazionali del 1966, rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali. Nella Carta delle Nazioni Unite sono peraltro enunciate le premesse per tale riconoscimento: c’è il ripudio della guerra, la difesa della pace e della sicurezza è obiettivo prioritario, gli Stati membri devono essere “peace-loving states”, è sancito il principio generale del rispetto di tutti i diritti umani. Ancora più esplicito è quanto contenuto nell’articolo 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani: “Ogni individuo ha diritto a un ordine sociale e internazionale in cui tutti i diritti e le libertà fondamentali enunciati nella presente Dichiarazione possono essere pienamente realizzati”.

La persistente contrarietà di molti Stati discende dalla consapevolezza che, una volta riconosciuto il diritto umano alla pace, su di essi incomberebbe il duplice obbligo giuridico di cancellare lo ius ad bellum quale attributo forte della loro sovranità, e di adempiere al dovere della pace, con la conseguenza che la violazione del diritto alla pace si configurerebbe, in quanto tale, come un crimine sanzionabile ai sensi del diritto internazionale.

In Italia, il Centro di Ateneo per i Diritti Umani dell’Università di Padova insieme con la Cattedra UNESCO Diritti Umani, Democrazia e Pace ha elaborato il testo di una mozione a sostegno dell’iniziativa del Consiglio delle Nazioni Unite mirante a riconoscere la pace come diritto fondamentale della persona e dei popoli, in corso di approvazione da parte dei Consigli comunali di numerosi Comuni.

L’Ucraina è un caso male gestito dall’Europa. Il diritto di autodeterminazione dei popoli è riconosciuto dal vigente diritto internazionale: se si creano nuovi Stati, che siano senza esercito, come il Costarica.

Per garantire la soluzione pacifica dei conflitti bisogna dare attuazione al sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite. La sicurezza collettiva disegnata dalla Carta è quella di una istituzione multilaterale, creata dalla comunità degli Stati con il compito di mantenere la pace nel sistema internazionale, che vincola gli Stati a rinunciare alla guerra come strumento politico (salvo nei casi di autotutela a seguito di attacco armato) nel nome della indivisibilità della pace. Il conferimento di forze armate nazionali all’ONU perché questa ne disponga in via permanente, come prevede l’art. 43 della Carta, imprimerebbe una forte accelerazione al processo di transizione dalla sicurezza nazionale alla sicurezza collettiva, il quale a sua volta innescherebbe un processo di disarmo reale con la messa sotto controllo da parte delle Nazioni Unite sia della produzione sia del commercio delle armi e la costituzione di contingenti militari (adeguatamente addestrati a compiti di polizia internazionale) di rapido impiego, in modo che le Nazioni Unite ne possano disporre tempestivamente il dispiegamento sul campo (stand-by units).

Il modello di sistema di sicurezza collettiva (politica e militare) che offre la Carta delle Nazioni Unite è legittimo e realistico, cioè praticabile, ma per la sua concreta e integrale messa in opera occorre la volontà politica degli stati, in particolare dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza, cioè una variabile indipendente estremamente problematica.

 

RDG: È possibile arrestare la generalizzazione di un sistema di relazioni internazionali che si mostra sempre più indifferente, se non ostile, alla vita e ai diritti delle persone e dei popoli? Come riuscire ancora a difendere e consolidare i diritti umani, in un’epoca in cui l’umanità appare sempre più deprivata di diritti? Siamo chiamati all’assunzione di nuove responsabilità storiche, collettive e individuali?

MM: La conflittualità planetaria affonda le proprie radici nel diverso, squilibrato livello delle condizioni di vita nelle varie regioni del mondo e si alimenta di dispute territoriali, rivendicazioni di indipendenza politica, fondamentalismi, violenti e non, imperialismi culturali, criminalità transnazionale, uso politico e distruttivo degli strumenti della competizione economica e delle transazioni finanziarie. Essa può essere affrontata, fondamentalmente, in due modi alternativi, a seconda che ci si avvalga del paradigma statocentrico, quello che informa il tradizionale realismo, oppure del paradigma umanocentrico.

Nel primo caso, le relazioni internazionali costituiscono un campo dove la dimensione morale non può e non deve avere rilievo: le azioni degli attori paradigmatici – gli Stati nazionali sovrani, intesi come perfettamente razionali, strumentali e strategici – sarebbero “value-free”. Gli stati “sovrani” continueranno, pur con diminuite capacità di government, a subordinare gli interessi delle comunità umane all’interesse nazionale e a utilizzare i tradizionali strumenti delle relazioni interstatuali, compresa la diplomazia verticistica e l’azione coercitiva di tipo bellico. Gli anni novanta del secolo scorso e l’inizio del terzo millennio, segnati in particolare dalla prima guerra del Golfo e dalle guerre in Kosovo, in Afghanistan, in Iraq, ci consegnano un’evidenza empirica sufficientemente chiara riguardo alla via statocentrica, coi risultati di non-soluzione dei problemi che sono sotto gli occhi di tutti. La riproposizione del paradigma statocentrico non è né eticamente accettabile né conveniente sotto un profilo di razionalità costi-benefici: in altri termini, la perpetuazione dello statocentrismo nella politica internazionale costerebbe cara a tutti, governanti e mercanti compresi.

Se ci si avvale del paradigma umanocentrico, allora la gestione della conflittualità deve essere affrontata nell’ottica della human security, con il coinvolgimento delle varie categorie di attori della politica internazionale: statuali e non statuali, intergovernativi, sopranazionali e transnazionali, tenendo conto del principio di sussidiarietà territoriale e funzionale. Il riferimento sarà ad una scala di valori che vede al primo posto valori quali la vita, la dignità della persona, la giustizia sociale ed economica, la pace positiva, la democrazia, insomma tutti i diritti umani: civili, politici, economici, sociali, culturali, individuali e collettivi, della persona e dei popoli. In questo scenario, la centralità delle Nazioni Unite e la pratica del multilateralismo sono prioritari. È lecito ipotizzare che la scelta di questo secondo paradigma consenta, da un lato, di alimentare una sinergia virtuosa tra i processi di trasformazione strutturale in atto e, dall’altro, di contrastare gli effetti negativi della mondializzazione selvaggia dell’economia.

 

RDG: Loro malgrado, i sistemi di relazioni internazionali che si sono storicamente avvicendati sono stati di tipo interdittivo, basati come erano sulla regolazione e messa in equilibrio della minaccia proveniente dall’Altro, prima e dopo che assumesse il volto del nemico. È, forse, giunto il tempo di passare a relazioni internazionali inclusive? Non è, forse, indifferibile lavorare sui conflitti che restano nascosti in profondità, per disattivarne l’eterna e velenosa operosità?

MM: Certo bisogna lavorare in profondità per prevenire e gestire in modo nonviolento i conflitti, operare a livello locale e internazionale. Soprattutto occorrono politiche pubbliche locali, nazionali e internazionali. Occorre far funzionare le legittime istituzioni internazionali, occorre assicurare il governo mondiale dell’economia, i controllo delle armi, il disarmo. Per conseguire risultati di global (good) governance e in presenza delle resistenze opposte dagli Stati, un accresciuto ruolo delle formazioni di società civile globale è necessario per accelerare lo sviluppo del processo di democratizzazione dell’ONU. Dunque, il più di potere dell’ONU passa attraverso una più diretta legittimazione dell’Organizzazione mondiale operata dalle formazioni di società civile e una più ampia partecipazione politica popolare ai suoi processi decisionali. In questa prospettiva, la vision complessiva è quella che risulta dall’intreccio fra la strategia dello human development e la strategia della human security, quali messe a punto nel fertile cantiere delle Nazioni Unite con saldo ancoraggio al diritto internazionale dei diritti umani. L’architettura istituzionale che ne discende è quella della multilevel governance, cioè di un quadro dinamico in cui l’esercizio di competenze, funzioni e processi politici avviene su più livelli territoriali in base al criterio della sussidiarietà.

 

RDG: Per poter vivere nella pace, è necessario riconoscere l’Altro ed essere riconosciuti dall’Altro. I diritti umani possono essere uno dei contrassegni della reciprocità del riconoscersi. Crede che questa strada sia percorribile? E quanto lungo e difficile è il cammino davanti a noi?

MM: Educazione, formazione, informazione sono fondamentali in una società multiculturale. Fortunatamente, oggi i temi della pace, dell’integrazione europea, dei diritti umani, dell’interculturalità cominciano a essere posti al centro di varie iniziative educative e formative che vedono impegnati attori e istituzioni di diversa natura e a diversi livelli: università, scuole di ogni ordine e grado, organizzazioni non governative, enti di governo locale e regionale, tutti impegnati sulla via tracciata dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sul diritto all’educazione e alla formazione ai diritti umani e dalla Carta europea sull’educazione alla cittadinanza democratica e l’educazione ai diritti umani. Come ha affermato Antonio Papisca, il tema del dialogo interculturale è strettamente interconnesso con quello della cittadinanza, cioè con la pratica della democrazia. Il paradigma dei diritti umani si pone quale codice di simboli comunicativi, cioè quale strumento transculturale che facilita il passaggio dalla condizione potenzialmente conflittuale della multiculturalità a quella dialogica della interculturalità. Il dialogo interculturale deve avvenire tra pari e serve per lavorare assieme, per immaginare e realizzare progetti comuni, per obiettivi di bene comune. La parità sta nella condivisa consapevolezza dell’uguaglianza degli esseri umani così come sancito dal diritto internazionale dei diritti umani. Partendo dal paradigma dei diritti umani, il dialogo deve condursi non solo su principi ma anche e soprattutto su come tradurre i principi in comportamenti, politiche e azioni positive, cioè su quanto andrebbe fatto assieme, quotidianamente all’interno della stessa comunità politica. Il comune obiettivo strategico è la costruzione della città inclusiva risultante dal contributo delle varie culture.

 

RDG: Qualche anno fa a Padova, per l’esattezza nell’ottobre del 2010 in preparazione della Giornata mondiale contro la povertà, lei è stato tra i principali relatori in un convegno che aveva per tema: “Dignità e diritti in comunità responsabili e inclusive”. In quell’occasione, applicando il suo approccio ai diritti umani e alla pace, lei delineò l’ipotesi di considerare il diritto alla casa come un diritto umano. Ritiene possibile estendere quell’ipotesi alle relazioni internazionali? Comunità responsabili e inclusive all’interno possono proiettarsi all’esterno in relazioni internazionali altrettanto responsabili e inclusive? E non è possibile anche che si configurino retroazioni altrettanto virtuose, dall’esterno verso l’interno?

MM: Il diritto alla casa, come il diritto all’alimentazione è un diritto umano internazionalmente riconosciuto. Anche per questo diritto, come per il diritto al lavoro, non bastano le pur necessarie sentenze dei tribunali. Occorrono politiche pubbliche per quella che una volta si chiamava l’edilizia popolare, occorre risanare e rendere abitabili le periferie…

Il diritto a un alloggio adeguato è riconosciuto all’art. 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali che così recita: «Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo a un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario, e alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Gli Stati Parti prenderanno misure idonee ad assicurare l’attuazione di questo diritto, e riconoscono a tal fine l’importanza essenziale della cooperazione internazionale, basata sul libero consenso».

Il Comitato dei diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite nel “general comment” n. 4 “Diritto a un alloggio adeguato” (adottato nel 1991) sottolinea tra l’altro che «il diritto alla casa non può essere preso in considerazione in maniera isolata dagli altri diritti umani. Esso tocca il principio della dignità umana e quello di non discriminazione. Il pieno godimento del diritto alla casa richiede il pieno godimento di tutti gli altri diritti umani».

In Europa, la Carta sociale europea, adottata dal Consiglio d’Europa nel 1961 e rivista nel 1996 riconosce il diritto alla casa come diritto fondamentale. L’articolo 31 recita: «Per garantire l’effettivo esercizio del diritto all’abitazione, le Parti s’impegnano a prendere misure destinate a: favorire l’accesso ad un’abitazione di livello sufficiente; prevenire e ridurre lo status di “senza tetto” in vista di eliminarlo gradualmente; rendere il costo dell’abitazione accessibile alle persone che non dispongono di risorse sufficienti».

Il diritto alla casa viene inoltre riconosciuto dalla Carta sociale europea a specifici gruppi vulnerabili, quali persone con disabilità, lavoratori migranti, persone anziane.



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