«Per al-Sisi ultima chance: o si va avanti o si chiude»

by Chiara Cruciati, il manifesto | 9 Settembre 2016 9:10

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Nel giorno in cui si apre il terzo incontro tra Procura di Roma e investigatori egiziani, la cruda descrizione delle atroci torture subite da Giulio Regeni scuote ognuno di noi. Già sette mesi fa le parole della madre, Paola Deffendi, avevano disegnato un quadro di inimmaginabile sofferenza: «L’ho riconosciuto solo dalla punta del suo naso».

Le 225 pagine contenenti i risultati dell’autopsia condotta dai medici Fineschi e Chiarotti già ad aprile erano state messe a disposizione delle autorità egiziane. Con una lama sono state tracciate quattro o cinque lettere (in due casi una X) sul dorso, vicino all’occhio destro, sulla mano e sulla fronte. I pestaggi, ripetuti per giorni, hanno provocato più di 15 fratture, scapole, polso, dita di mani e piedi, omero destro e peroni, oltre ad avergli rotto cinque denti.

Ovunque segni di bruciature, elettrochoc, tagli. Secondo il rapporto, «si può ipotizzare che lo abbiano colpito con calci, pugni, bastoni, mazze».

Oggi quel corpo martoriato, ogni singola pena subita, cade come un macigno sulla scuola di polizia in via Guido Reni: qui si sta tenendo la sessione di lavori del team del pm Pignatone con il procuratore generale egiziano Sadek. Scarse le anticipazioni: secondo fonti giudiziarie egiziane, non ci sono svolte significative nelle indagini.

Dichiarazioni che purtroppo non stupiscono vista la povertà della collaborazione e la lunga serie di depistaggi che l’hanno accompagnata. Altre fonti anticipano «nuove informazioni», ma ciò che il team romano si aspetta sono i dati completi sul traffico telefonico catturato dalle celle nella zona di scomparsa e ritrovamento del giovane.

La famiglia, che ha permesso la pubblicazione dell’autopsia, forse nell’estremo tentativo di smuovere le istituzioni italiane alla vigilia del terzo incontro tra procure, chiede verità: «Le torture che gli sono state inflitte, i tempi e le modalità dei supplizi che nostro figlio ha dovuto sopportare non possono che essere l’opera perversa di qualche professionista delle tortura».

Un corpo che racconta la riduzione di un essere umano a qualcosa che umano non è, segni inconfondibili che gli egiziani conoscono a menadito. Su questo punta da mesi la campagna lanciata da Amnesty International Italia, “Verità per Giulio Regeni”: mettere a nudo il regime del Cairo e i suoi alleati occidentali. Perché, come ripete da tempo il portavoce Riccardo Noury, quello che ha subito Giulio lo subiscono da anni migliaia di egiziani.

«Giulio vittima di professionisti della tortura»: come inciderà l’autopsia sull’incontro con il team investigativo egiziano?

Spero che abbia degli effetti. Ma soprattutto queste terribili informazioni dovrebbero ulteriormente sensibilizzare il governo italiano perché compia un’azione più incisiva. Sulla base delle informazioni che avevamo dall’inizio, abbiamo sostenuto che sul corpo di Giulio c’era una firma. Questi nuovi dettagli lo confermano, un ulteriore elemento che deve condurre alla verità nell’ambito del contesto di repressione dei servizi egiziani.

Quella frase della madre – «Hanno usato il suo corpo come una lavagna» – ce la ricorderemo ancora tra 50 anni. Quei segni raccontano molto: una persona trattata come un oggetto da professionisti della tortura addestrati per togliere umanità ad una persona.

Descrizioni così dettagliate, le offese al suo corpo, colpiscono come un pugno. Si aspetta reazioni da società e governo?

L’opinione pubblica non ne aveva bisogno, sono mesi che c’è una mobilitazione incredibile online e offline, il manifesto giallo di Giulio riempie palazzi, case di privati, istituzioni. Mi aspetto, alla luce delle informazioni date dall’autopsia, che ci siano parole di preoccupazione da parte delle istituzioni italiane e di conferma dell’impegno a pretendere la verità, nient’altro che la verità.

Si aspetta reazioni dal Cairo?

Da parte del Cairo le reazioni le vorrei vedere domani pomeriggio (oggi per chi legge, ndr) alla fine dell’incontro tra le procure. C’è un livello alto di polemica da parte dei media egiziani legati ad al Sisi che è a dir poco offensiva. Mi aspetto che la procura egiziana soddisfi le richieste della procura di Roma.

È l’ultima chiamata: dopo sette mesi il tempo è maturo per una qualche forma di conclusione. Al di là del formale rapporto di cortesia tra procure, o si fa un passo in avanti vero o si chiude riconoscendo che non c’è l’intenzione di collaborare.

A proposito della liberatoria fatta firmare a Giulio dall’Università di Cambridge, è un atto normale da parte di un ateneo o sottintende superficialità?

Occupandomi di violazioni di diritti umani da parte di governi, non ho le competenze per dire se si tratti di una prassi abituale o no. Chiedendo a persone più informate, mi è stato detto che quella dell’attestazione del rischio è una procedura formale che si fa in tutti i casi di ricerche all’estero. Detto questo, se insisto nel dire che la verità giudiziaria si trova al Cairo e da nessun’altra parte, ogni elemento che arriva da Cambridge può chiarire tutto ciò che ha legato Giulio all’università e alla sua ricerca.

Spero soltanto che non ci siano deviazioni di attenzione sul responsabile vero. In questi giorni l’attenzione va focalizzata sull’incontro tra le due procure. L’interlocutore che deve rispondere sta in un palazzo al Cairo e si chiama Abdel Fattah al-Sisi.

Una volta mi è stato detto, in riferimento al ruolo di Cambridge: hanno gettato un pesciolino nella vasca dei piranha. Ecco, io mi occupo della vasca dei piranha, di chi la sta alimentando, di chi ci fa affari e gli manda le armi.

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