Angelo Del Boca: «L’Italia è in guerra in Libia»

by Tommaso Di Francesco, il manifesto | 14 Settembre 2016 7:58

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Abbiamo rivolto alcune domande sull’attuale crisi libica e sul ruolo dell’Italia ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italianio, esperto di Libia e di Africa e autore tra l’altro di una biografia di Gheddafi.

Ieri alla camere, la ministra della difesa Pinotti e il ministro degli esteri Gentiloni hanno presentato il piano del governo sulla Libia, subito operativo. Il Parlamento è ridotto ad ascoltatore, non decide nulla. E la portaerei Garibaldi con il suo carico è già partita.

Interverremo in Libia con una missione «sanitaria-militare» che si chiama Ippocrate, con «60 sanitari tra medici e personale infermieristico» ma con «135 uomini a supporto logistico e 100 parà» della Folgore, più i droni e i cacciabombadieri della base di Trapani, più la portaerei Garibaldi. Che ne pensi?

Direi che siamo in guerra e stavolta con i soldati sul terreno, non si tratta più solo di raid dall’alto dei cieli. E un intervento sanitario dovrebbe essere caratterizzato da una presenza militare più che ridimensionata, assolutamente diversa e di supporto. Qui è proprio il contrario: i militari appaiono predominanti. In genere si comincia così, poi si aggiungono sempre altri soldati.

Che cosa è accaduto perché si arrivasse a questa decisione, in qualche modo annunciata e che diventa operativa nel momento, ci pare, peggiore visto che in Libia è sempre più caos e guerra civile?

È accaduto che la battaglia di Sirte non sta andando come si immaginava. Da più di un mese la città è data, anche dai media, per caduta e nelle mani delle truppe fedeli a Tripoli, e invece le milizie dello Stato islamico non cedono. Si è sottovalutato la struttura quasi blindata della città, costruita così da Gheddafi come la nuova Tripoli ma turrita e di cemento.

Tra l’altro continuiamo a presentare le milizie di Misurata che combattono a Sirte come l «esercito libico», quando sono solo alleate del governo di Al Serraj, ora internazionalmente riconosciuto anche dall’Onu, un governo che non controlla nemmeno tutta la Tripolitania e che si è insediato solo per chiedere l’intervento internazionale e perché vuole l’unità nazionale. Probabilmente è il peggior momento anche per Serraj.

Qual è la situazione sul terreno e quali schieramenti si contrappongono?

Dall’inizio di agosto è cominciata una nuova fase della guerra. In appoggio a Serraj sono intervenuti anche gli Stati uniti con massicci bombardamenti aerei che, vista la struttura della città di Sirte, a quanto pare non hanno sortito l’effetto definitivo, nonostante le tante perdite dell’Isis. Misurata, dove arrivano centinaia di feriti, morti e vittime dei combattimenti, è sempre più in prima linea, non è solo una retrovia di intelligence, vettovaglie, addestramento, ospedali.

È iniziata ora la fase concreta della spartizione della Libia. Perché intanto, dall’altra parte, la Francia, che ha mire sulla Cirenaica e sul Fezzan collegato alle crisi africane di Mali, Ciad e Niger, insieme all’Egitto di Al Sisi, tanto esaltato da Matteo Renzi, stanno appoggiando anche militarmente il generale Khalifa Haftar, il leader militare del governo di Tobruk. Che non riconosce quello di Tripoli e che rivendica il fatto che, un anno fa, era proprio l’esecutivo della capitale della Cirenaica ad essere riconosciuto dalla comunità internazionale che diffidava degli islamisti al potere a Tripoli.

Proprio in questi giorni il generale Haftar, mentre continua a bombardare Derna in mano alle milizie di Al Qaeda, è all’attacco e sta conquistando città e porti petroliferi libici decisivi per la continuazione della guerra e del controllo futuro della Libia. Come di ogni possibile trattativa diplomatica sul campo. Ecco perché inviare ora tanti soldati a copertura di una esigua missione sanitaria vuol dire partecipare alla seconda guerra civile libica, infilarci dentro un imbuto rischioso e senza fine.

Ma il governo italiano sostiene che l’invio dei nostri soldati è un «obbligo morale» perché non possiamo permettere che al di là delle sponde del Mediterraneo si rafforzi lo Stato islamico

È un’affermazione perfino giustificabile. Se non ci fosse di mezzo il piccolo particolare davvero immorale: che l’Italia con i partner della Nato, in primis la Francia e in seguito gli Stati uniti, sono responsabili del disastro dello Stato libico. Qualcuno dovrà prima o poi ammettere ufficialmente il fallimento dell’intervento militare internazionale della Nato nel 2011 che abbatté Gheddafi garante almeno dell’unità del Paese. E che, pochi giorni prima di venire ucciso, ammoniva che se fosse stato eliminato lui allora sarebbero arrivati i veri nemici integralisti dell’Occidente.

Siamo in guerra. Stavolta non la chiamano umanitaria ma sanitaria-militare, «Ippocrate», c’è una evoluzione. La chiamassero come vogliono, di fatto stiamo partecipando della spartizione della Libia e delle sue preziose fonti petrolifere.

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