Un premier che non sa più dove aggrapparsi

Un premier che non sa più dove aggrapparsi

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Quando ho ricevuto la prima telefonata che mi comunicava che il presidente del Consiglio aveva rilanciato il Ponte sullo Stretto alla festa per i 110 anni di Salini-Impregilo, ho pensato a uno scherzo. Poi altre telefonate e l’incredulità ha ceduto il passo allo sconforto. Se Renzi pensa di rilanciarsi puntando sul Ponte sullo Stretto vuol dire che è messo male, che non ha più dove aggrapparsi, che intorno a lui sente la terra che frana. L’economia ristagna, il Jobs act si è rivelato un Misfact, e sul Referendum, sulla Riforma epocale che doveva salvare il paese, meglio non guardare i sondaggi. E annunciare centomila posti di lavoro per la costruzione del Ponte è più ridicolo del milione dei posti di lavoro che aveva promesso Berlusconi con un programma ben più ricco ed articolato, sia pure di fantasia.

Chi vive nell’area dello Stretto, tra le due sponde, è stufo di sentire parlare di Ponte da oltre quarant’anni. Non solo tempo perso, ma denaro buttato al vento (società Ponte sullo Stretto), studi e dati inventati per far piacere al committente, ed energie intellettuali sprecate. Risorse umane e finanziarie che avrebbero potuto essere spese per migliorare i trasporti sullo Stretto, per realizzare la città metropolitana dello Stretto, invece di due artificiali, irrealizzabili città metropolitane – Reggio e Messina – che sono state istituite cambiando il nome alle rispettive Province.

È stato calcolato che con un decimo di quello che costerebbe realmente il Ponte sullo Stretto, compresi i collegamenti stradali e ferroviari, si potrebbe mettere in sicurezza tutti gli edifici pubblici, e una parte rilevante degli edifici privati in tutta l’area dello Stretto. Non dobbiamo dimenticarci, infatti, che siamo di fronte all’area a più alto rischio sismico della penisola, dove il 28 dicembre del 1908 c’è stato il peggiore dei terremoti, a livello mondiale, del secolo scorso per numero di vittime (oltre 100mila). Senza dimenticare che solo sette anni fa il 1 ottobre, a Giampilieri, villaggio messinese, morivano 27 persone per una cosiddetta “bomba d’acqua”, ma soprattutto per l’incuria e l’abbandono dei territori collinari di tutta l’area. Il fatto grave, anzi gravissimo, è che mentre tutti oggi riconoscono che siamo di fronte ad un mutamento climatico inquietante, ad “eventi estremi” con cui fare i conti, non si fa niente per prevenire i disastri annunciati.

Infine, siamo stufi di ribadirlo, c’è un dato scientifico inconfutabile: dalle rilevazioni satellitari è da almeno un ventennio chiaro che esiste un lento ma inesorabile allontanamento della sponda calabrese da quella siciliana di oltre 1 centimetro ogni cinque anni, unitamente ad un fenomeno di bradisismo sulla costa calabrese, oltre al già richiamato rischio sismico altissimo.

Siamo in tanti a dirlo, ingegneri, geologi, economisti, sociologi, politici di sinistra (quella che ancora resiste) e M5S: la grande opera di cui ha urgenza il paese è la messa in sicurezza del territorio. Abbiamo regalato la categoria della «sicurezza» alla destra che l’ha utilizzata a senso unico dandole un connotato razzista (sicurezza contro gli immigrati, i diversi, gli esclusi). Ed invece la «sicurezza», in questa fase distruttiva del capitalismo, dovrebbe essere declinata come: sicurezza territoriale (rispetto a terremoti e alluvioni), sicurezza alimentare, sul luogo di lavoro, del posto di lavoro, ed infine sicurezza dell’accesso ad un reddito minimo vitale.

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