Conti sballati, di sicuro cresce solo il debito

by Alfonso Gianni, il manifesto | 5 Ottobre 2016 9:27

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Non è più solo l’Ufficio parlamentare per il bilancio (Upb) a dubitare delle stime del governo. Le audizioni parlamentari delle commissioni Bilancio di camera e senato sono state un calvario per l’esecutivo. Dopo che l’Istat aveva rivisto al ribasso le valutazioni sulla crescita per il secondo trimestre del 2016, fissandolo sullo 0,6%, Banca d’Italia, Corte dei Conti, oltre all’Upb, hanno smontato l’impianto programmatico contenuto nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza che il governo dovrà presentare a Bruxelles entro il 15 ottobre.

Nello stesso tempo neppure il Fondo monetario internazionale si mostra convinto, anche se i suoi rilievi sono più teneri. Renzi fa spallucce e dichiara che tirerà dritto per la sua strada, che il Def sarà presentato alle Camere ma intanto appare in guerra con gli istituti finanziari e di valutazione interni e internazionali. Gli sherpa minimizzano.

E si lamentano che ogni anno «è la solita storia», invece di pensare ad una sterzata. Padoan rimanda alla manovra che verrà, di cui i previsori sarebbero all’oscuro, e chiama a correo addirittura il presidente della Bce Mario Draghi sostenendo di avere agito con la cura da lui invocata. Chissà se quest’ultimo è d’accordo. Intanto è la stessa Corte dei Conti a sottolineare che l’effetto espansivo del Pil per il 2017 appare del tutto sovrastimato rispetto a quanto si sa sulle manovre in cantiere.

La faccenda è seria. Stando così le cose, con una differenza di 0,4 punti tra l’andamento tendenziale, cioè a legislazione costante, e la stima di crescita dell’1% vantata dal governo e il pessimismo più che motivato sulla possibilità che le politiche messe in campo da Renzi possano colmare tale divario, l’Upb non è disponibile ad apporre il proprio bollino. Sarebbe la prima volta da quando nel 2014 è stato costituito l’Ufficio che il quadro programmatico del governo non riceverebbe la sua validazione. Il che renderebbe la strada maledettamente in salita per ottenere dalla Ue quella flessibilità tanto invocata da Renzi. Indispensabile anche per conquistare voti nel referendum del 4 dicembre. Tanto più che anche la Lagarde non va al di là di uno 0,9% di crescita stimabile per il nostro paese per il 2017, una previsione più vicina ma comunque sempre al di sotto di quella desiderata, cioè quell’1% – che non sarebbe di per sé un granché – tondo tondo, diventato un obiettivo politico e propagandistico del governo.

D’altro canto le critiche di Bankitalia sono puntuali e fanno leva anche su alcune delle vie d’uscita indicate da Padoan. Da via Nazionale si sottolinea la continua crescita del debito pubblico, il sostanziale fallimento della spending review, la modestia degli obiettivi di nuove privatizzazioni, ma soprattutto la scarsa credibilità per non dire inconsistenza di un piano di investimenti pubblici e privati che possano rilanciare effettivamente l’economia reale. Il ponte sullo stretto di Messina, con i suoi vaneggiati 100mila posti di lavoro, non se lo beve nessuno.

Non sono molti quelli che corrono in soccorso a Renzi. Tra questi Juncker e con riconquistata vivacità Gianni Pittella, capogruppo socialista al parlamento europeo, il quale si lancia nella missione di salvare il soldato Renzi tornando a utilizzare la sciagura del terremoto come apripista per la flessibilità. Ma è chiaro che i margini si fanno sempre più stretti. Se Renzi è sotto referendum, i cui esiti per lui sono sempre più incerti, gli altri leader europei, quelli che contano, sono sotto elezioni. Nessuno vuole restare scoperto dal proprio lato. Se il mugnaio Arnold di Potsdam poté alfine contare su un giudice a Berlino – ed era Federico il Grande, in quanto magistrato supremo – è assai più improbabile che Renzi di Rignano riesca a trovare a Bruxelles chi possa invertire il suicidio delle politiche di austerity cui da anni è condannata l’Europa.

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