Fermiamo la guerra contro i poveri del mondo

by Sergio Segio, Rapporto sui diritti globali 2015 | 11 Ottobre 2016 19:31

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Guerre, migrazioni, questioni ecologiche, modelli di sviluppo, crisi economiche, diseguaglianze: c’è un filo nero che lega e intreccia i problemi all’attenzione del mondo in questi anni. Drammi e squilibri crescenti che il mondo rischiano di farlo esplodere, anche per responsabilità, o irresponsabilità, delle classi dirigenti, di una politica nazionale e sovranazionale che non sa, non vuole o non riesce a dare risposte e che, anzi, talvolta origina o drammatizza le troppe e crescenti vulnerabilità. Eppure, per don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e presidente di Libera, vi sono segnali in controtendenza, ancora timidi e isolati ma che vanno rafforzati, costringendo dal basso i governi a cambiare radicalmente rotta.

 

Rapporto Diritti Globali: Qualche tempo fa, lei aveva condiviso l’auspicio che il Vaticano, attraverso le nunziature, potesse adoperarsi maggiormente per l’accoglienza e il riconoscimento dei profughi. Una possibilità giuridicamente percorribile in quanto la Santa Sede non deve sottostare al regolamento di Dublino, che vincola i Paesi membri dell’Unione Europea. Tuttavia, in quella stessa occasione, lei invitava a non addossare solo alla Chiesa il dovere dell’accoglienza, che riguarda tutti. Oggi, che il problema risulta ancor più drammatizzato dai costanti flussi di decine di migliaia di persone che cercano scampo in Europa, che valutazione fa?

Luigi Ciotti: In più di un’occasione, in effetti, si è voluto sovraccaricare di aspettative la figura di Papa Francesco, pur avendo lui stesso sottolineato che le sue denunce e sollecitazioni si rivolgono alla coscienza e all’impegno di tutti. Quanto all’immigrazione, è certamente un fenomeno “epocale”, come si usa definirlo, ma sulle cui cause, recenti e remote, spesso non ci poniamo domande all’altezza, tali da indicarci risposte efficaci.

La prima domanda, sin troppo semplice ma frequentemente elusa: perché donne, uomini e bambini scelgono di fuggire dalle loro case e dalle loro radici, investendo spesso tutti i loro risparmi, rischiando la vita nel viaggio e troppo spesso perdendola?

La risposta è che, il più delle volte, la loro casa non c’è più, è stata rasa al suolo dai bombardamenti; oppure sono stati sfollati o scacciati dall’uno o dall’altro dei belligeranti. Di fronte al rischio di morire è inevitabile – chi di noi lo farebbe? – scegliere quello della fuga.

E ancora: perché tutto questo accade? Perché stanno proliferando guerre e terrorismo? Chi le alimenta, chi ci guadagna?

Solo andando a fondo di questi inquietanti interrogativi possiamo comprendere i drammi e la crescente intensità dei flussi di persone che fuggono, in primo luogo, appunto, da guerre e violenze – come certificano anche i dati di “Frontex” – e, in second’ordine, da fame, sete e carestie; le quali pure non sono accidenti ma esiti di modelli di sviluppo distorti e predatori o del colposo degrado delle condizioni ambientali: basti citare la questione, anch’essa epocale, del surriscaldamento climatico e quella dell’accaparramento delle terre, il cosiddetto “land grabbing”.

Si tratta di modelli che non vanno solo corretti nei meccanismi, ma ripensati nei presupposti morali e culturali. La crisi economico-finanziaria in corso poteva e doveva essere l’occasione per un radicale ripensamento. Non è successo. Anzi, di bolla in bolla, di crisi in crisi, si persevera nell’errore. Un errore che, appunto, attiene allo stesso modello, quello che Papa Francesco nella sua enciclica chiama “paradigma tecnocratico”, i cui effetti, però, non sono asettici o “teorici” ma si inscrivono sulla pelle e nella sofferenza delle persone. Quelle migliaia di morti nel deserto e in mare sono il risultato di un “naufragio delle coscienze”, malattia sociale i cui sintomi sono l’indifferenza variamente miscelata con il fatalismo, il conformismo e talvolta il cinismo, come dimostra il riaffiorante razzismo e i numerosi episodi d’intolleranza in Italia, ma ancor più in Germania, Ungheria e altri Paesi dell’Est Europa.

Dunque, è prezioso l’impegno di Papa Bergoglio e di alcuni vescovi, così come è esemplare l’impegno silenzioso e quotidiano dei tantissimi e anonimi sacerdoti, volontari, cittadini, credenti di religioni diverse. Ma è la vastità del problema e il suo carattere, appunto, epocale, a richiedere maggiori sforzi anche di altri “soggetti”: per prima la politica, che deve dimostrare più lungimiranza, assunzione di responsabilità, coraggio; la politica dei singoli Stati e ancor più quella delle sedi sovranazionali. Le leggi devono servire l’uomo, non viceversa. Le norme ingiuste vanno cambiate. Le regole di Schengen sono state spesso sospese – come, ad esempio, ha fatto la Francia quest’estate al fine di bloccare il flusso dei migranti in transito da Ventimiglia. Invece, non lo si fa e non lo si vuole fare con il regolamento di Dublino, che prevede l’assurdo obbligo per il richiedente asilo di fermarsi nel primo Paese europeo nel quale è giunto o è stato identificato.

 

RDG: Come lei insegna, le persone non sono né problemi né numeri, c’è persino il rischio che l’attenzione mediatica di questi mesi produca assuefazione anziché interrogativi e indignazione. Ci si commuove per la singola sorte del piccolo Alan, il bambino kurdo-siriano annegato con il fratellino e la mamma nel tentativo di fuggire dalla guerra e raggiungere l’Europa, ma si gira la testa da un’altra parte quando le vittime rimangono gruppo indistinto, grandi numeri. Tuttavia, ai dati statistici è necessario guardare per avere adeguata consapevolezza. Secondo quelli più recenti, forniti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nei primi otto mesi del 2015 almeno 2643 migranti sono rimasti vittime nel tentativo di entrare nella “Fortezza Europa”, 3641 quelli a livello mondiale. Numeri terribili, che non sembrano scuotere come dovrebbero. Di chi è la responsabilità di queste stragi?

LC: Le responsabilità sono tante e complesse, alcune affondano nella storia del secolo scorso e del colonialismo. Altre sono più vicine, nel tempo e nello spazio, e più facilmente rintracciabili. La legislazione in vigore in Italia e le norme comunitarie, ad esempio. Anche qui occorre essere franchi: le leggi hanno dei padri e delle madri, non vengono dalla luna! Chi le ha volute e approvate dovrebbe sentire questa responsabilità e dunque, almeno, lo scrupolo di modificarle. Lo stesso vale per provvedimenti come la scelta di chiudere l’operazione “Mare Nostrum”, indirizzata prevalentemente al soccorso, e di spostare le risorse sulla missione “Triton”, finalizzata invece al controllo delle coste. Ma, più in generale, c’è responsabilità di quella politica che specula sui drammi e le paure per ottenere consensi, col risultato di alimentare una mentalità che facilmente sfocia nel razzismo, negato da tutti a parole ma praticato da molti nei fatti, nei comportamenti e nei sentimenti quotidiani.

Sono tanti i fattori, i ritardi, le non volontà che sono alla base di questa quotidiana tragedia: l’egoismo dei Paesi membri che lasciano soli quelli più direttamente interessati dai flussi, almeno in prima battuta, per ragioni geografiche (Italia e Grecia, in primo luogo); le resistenze all’istituzione di un diritto d’asilo europeo, di corridoi umanitari, di una cittadinanza europea basata sullo ius soli; l’ignobile mercato realizzato sul traffico di esseri umani, su certi centri di “accoglienza” e di detenzione (come ci ha mostrato nel 2015 l’inchiesta “Mafia Capitale”) e anche quello di chi lucra su persone impossibilitate a regolarizzarsi e che, così, possono essere ricattate e sfruttate all’inverosimile: e non parlo solo dei “caporali”, ma anche di alcuni contesti familiari dove “badanti” o collaboratrici domestiche sono costrette al lavoro nero e alla clandestinità.

Per non dire poi, su scala globale, delle enormi e dirette responsabilità delle guerre, del mercato degli armamenti, e della desertificazione dovuta ai cambiamenti climatici provocata da quel modello distorto che – come disse a suo tempo Alex Langer e oggi ribadisce Papa Francesco in Laudato si’ – va superato attraverso una riconversione ecologica dell’economia.

 

RDG: A proposito di guerre, nel Rapporto sui diritti globali dello scorso anno, lei aveva messo in evidenza come sia progressivamente e impercettibilmente avvenuto un rovesciamento di senso di alcune importanti parole e, tra gli altri, faceva l’esempio della cosiddetta “guerra umanitaria”.

LC: L’ingerenza umanitaria con la forza dei cannoni è una contraddizione in termini. Quella definizione, entrata in voga ai tempi dell’invasione dell’Iraq da parte dell’alleanza occidentale guidata dagli Stati Uniti, la cosiddetta “coalizione dei volenterosi”, è servita a nascondere enormi interessi economici, con tanto di falsificazione di prove (gli arsenali chimici di Saddam Hussein).

Certo, non è mai semplice trovare strade adeguate ed efficaci per costringere a livello internazionale al rispetto dei diritti umani o per impedire violenze o stragi in atto, come ad esempio ai tempi della Bosnia, con i bombardamenti sulla Serbia da parte dell’Occidente, Italia compresa, o del dimenticato Ruanda, dove non si è mosso un dito per provare a fermare il genocidio della popolazione tutsi. Rimane vero che, almeno a posteriori, è doveroso osservare che le “guerre umanitarie” e l’interventismo militare hanno prodotto solo immense tragedie e pericolosissimi e perduranti squilibri geopolitici. Vale per l’Iraq, dove si continua a morire e dove dal 2003, con il violento rovesciamento del regime di Saddam, a oggi vi sono state 219.000 vittime, di cui la maggioranza civili. Ma vale per l’Afghanistan, per la Somalia, per la Siria, per la Libia, per l’Ucraina.

L’accordo sul nucleare iraniano è un importante segnale in controtendenza di cui bisogna riconoscere il merito a Barack Obama, che ha proceduto con determinazione in quella direzione, nonostante l’opposizione di molta parte del Congresso e di alleati storici degli Stati Uniti, come Israele. Qualche segnale di speranza dunque c’è, in mezzo a tanti altri invece luttuosi e negativi, e bisogna cercare di rafforzarlo; occorre che a livello mondiale le opinioni pubbliche, i movimenti, i cittadini, costringano i propri governi a scegliere di cambiare radicalmente rotta, a privilegiare sistemi non violenti di risoluzione dei conflitti, ad adottare politiche di stabilizzazione del quadro internazionale. Sapendo che una – se non la prima – causa scatenante delle guerre è l’ingiustizia sociale. E questo ci richiama la preoccupazione per le terribili diseguaglianze cresciute in questi ultimi decenni e ancor più approfondite in questi anni di crisi. Anche quella condotta contro i poveri del mondo è una guerra, più silenziosa ma non meno sanguinosa e tragica di quelle condotte con le armi.

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