by Alfredo Marsala, il manifesto | 4 Ottobre 2016 9:42
È stato il mare più che il rito. Mentre a Lampedusa il ministro Alfano “marciava” nella “giornata della memoria” in ricordo delle 386 vittime della strage di tre anni fa al largo dell’isola, nel Canale di Sicilia i soccorritori salvavano quasi 6mila persone, agganciando ben 36 barconi. Una migrazione senza fine dalle coste africane, ripresa a pieno regime per le buone condizioni del mare in una situazione di disarmante stallo in Europa. Con numeri destinati a salire perché sono in corso altre operazioni coordinate dalla centrale operativa della guardia costiera.
Dalla strage di Lampedusa a oggi non è cambiato nulla. Lo dicono i numeri dell’Unhcr: 11.400 le persone morte nel Mediterraneo dal 3 ottobre 2013 ad oggi. L’Alto commissariato per i rifugiati ricorda che la “giornata della memoria” viene celebrata «proprio nell’anno destinato a essere quello più letale nel Mediterraneo» mentre «muri e politiche restrittive continuano a ridurre lo spazio di protezione per i rifugiati in Europa». Solo quest’anno sono 3.498 i migranti morti «nel disperato tentativo di trovare salvezza in Europa», dice Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa, anche lei presente alla marcia di Lampedusa. «Non possiamo considerare queste tragedie con indifferenza e assuefazione. La giornata della memoria sia stimolo importante di riflessione e impegno», ammonisce.
Secondo i dati in possesso dell’Unhcr quest’anno hanno attraversato il Mediterraneo oltre 300mila persone, il 28% bambini, molti non accompagnati o separati dalle loro famiglie. Esistono, evidenzia l’alto commissariato, «alternative legali e sicure e vanno implementate: ricongiungimento familiare, reinsediamento, corridoi umanitari, visti per motivi di studio o lavoro». «Possibilità concrete affinché le persone in fuga da guerre, violenze e persecuzioni, possano arrivare in un luogo sicuro senza dover intraprendere viaggi pericolosissimi rischiando la vita, ancora una volta», aggiunge Sami.
Un appello alle istituzioni arriva dalla comunità di Sant’Egidio. «Nonostante lo sdegno che provocò quella strage, la visita di Papa Francesco e la mobilitazione di larga parte dell’associazionismo e del volontariato, si continua a morire in mare e, nel 2016, con cifre mai raggiunte: un morto ogni 42 profughi che partono dall’altra sponda del Mediterraneo, una percentuale ancora più elevata di quella registrata nel 2015», sottolinea la comunità. Che bolla come inutili «i muri» e sollecita «risposte di umanità e accoglienza», come «i corridoi umanitari», promossi da Sant’Egidio insieme alla federazione delle chiese evangeliche e alla tavola valdese: 300 profughi siriani già arrivati dal Libano con regolari voli di linea e non sui barconi e altre centinaia che giungeranno prossimamente.
Le vittime del naufragio al largo di Lampedusa furono 366, più 20 dispersi. Furono salvate 155 persone, 41 i minori. L’imbarcazione che si capovolse era un peschereccio lungo circa 20 metri, salpato dal porto libico di Misurata il primo ottobre del 2013, con a bordo migranti di origine africana provenienti soprattutto dall’Eritrea. Quando il barcone carico di profughi giunse a circa mezzo miglio dalle coste lampedusane, poco lontano dall’Isola dei Conigli, l’assistente del capitano gettò a terra una torcia infuocata che provocò un devastante incendio. Le fiamme erano state accese, fu spiegato in seguito, per fare notare la presenza della barca ai soccorritori. I profughi cercarono di mettersi in salvo, l’imbarcazione si capovolse e colò a picco. I primi ad accorgersi della tragedia furono all’alba dei pescatori locali che videro la gente in mare in mezzo a pozze di gasolio. Furono proprio quei pescherecci a caricare i primi superstiti. Lo scorso aprile la Corte di assise di appello di Palermo ha confermato 30 anni di reclusione al somalo Mouhamud Elmi Muhidin, uno degli scafisti del barcone della morte.
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