L’ex modella sfida gli islamisti «Porterò la pace in Somalia»

L’ex modella sfida gli islamisti «Porterò la pace in Somalia»

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Zero possibilità di vincere, eppure corre lo stesso. Sapendo che non verrà eletta, rischia la vita. Oggi saluta i suoi quattro figli alla periferia di Helsinki e parte. Torna nel luogo da cui è scappata da bambina. Torna perché vuole diventare presidente di un Paese fallito, che c’è e non c’è. Il suo.

Lei, rifugiata che ha imparato a scrivere a 14 anni, in Finlandia. Lei che adesso, dopo un paio di lauree, sta finendo un master in pubblica amministrazione a Harvard. Fadumo Dayib ha 44 anni, una faccia da ragazza sotto magnifici turbanti colorati. Ha fatto l’infermiera, la modella, ha lavorato nei campi Onu in Liberia, progettato modelli di assistenza per madri sieropositive in Africa. E’ scappata dalla guerra trent’anni fa e nell’imbuto della guerra fa ritorno. Ha un chiodo fisso: cambiare il suo Paese. Vuole portare al tavolo della pace i miliziani islamisti di al-Shabab («non è la religione a muoverli, ma la ricerca di una fetta di potere»), promuovere vere elezioni, porre fine alle mutilazioni genitali femminili («a 7 anni ci sono passata anch’io, mia madre sbagliando credeva che fosse un obbligo religioso»), bucare le tasche ai corrotti. Ci vuole altro, per chiamarla naif? Ma i naives non fanno paura. Lei sì. Da quando ha annunciato di volersi candidare, sono arrivate minacce «più o meno velate», ma anche inviti da anchor americane come Christiane Amanpour. Nelle interviste dice: «Faccio più paura ai clan della politica che agli estremisti filo-Al Qaeda». Lei paura? «Le minacce sono complimenti». Il primo obiettivo è portare a casa la pelle da Mogadiscio. «La mia non è una missione suicida. Ho dei sogni per la Somalia, e per realizzarli devo restare viva».

Questo è anche l’obiettivo di 11 milioni di somali. Elezioni in tempo di guerra. Al-Shabab è tornata a colpire duro, tanto da far ventilare il rinvio del voto. Su 18 candidati, Dayib è l’unica donna. Non ha chance anche perché quelle che cominciano oggi e si concluderanno con un presidente proclamato il 30 novembre non sono vere elezioni, una persona un voto. Troppo pericoloso, ha convenuto l’Onu. Una decisione del presidente Mahmoud, avallata dalla comunità internazionale, che Dayib contesta con forza. La promessa di «libere elezioni» non vale per i somali? E così saranno 135 capi clan a nominare il Parlamento. E il presidente (forse lo stesso Mahmoud). Da 14 mila delegati si sceglieranno 275 deputati che eleggeranno il capo di Stato. Alle donne andrà il 30% dei seggi. Almeno quello. Lo sceicco Yusuf Ali Aynte, capo del Consiglio Religioso Somalo, ieri ha criticato chi tuona contro la quota femminile: «Le donne lavorano più di tutti. Chi manda avanti una città come Mogadiscio? All’80% le donne. Perché non dovrebbero essere in Parlamento? Dio non lo proibisce. E il Corano neppure».

Donne sì, però sottomesse. Nessuno dei 135 capi clan vorrebbe eleggere una donna che contesta la loro legittimità di super elettori. Zero possibilità per Fadumo. Il sogno delle libere elezioni si sposta al 2020? «Aspetteremo. E vinceremo tra quattro anni», dice la somala di Finlandia.

Può aspettare, chi ha atteso 14 anni per poter scrivere il proprio nome. Fadumo è bellissima, fa anche la modella prima che l’infermiera. Ma è la scuola la passione, tra corsi e i titoli di studio «mi sento come un bambino in un negozio di dolci». Scuola e diritto alla vita. Nel 2005 lei e il marito guardano un servizio tv sulla Somalia. C’è un donna con un figlio malato in braccio, che cammina e cammina per raggiungere il primo avamposto sanitario. Il bambino muore prima di arrivarci. Fadumo decide quel giorno che vuole darsi da fare per il suo Paese: con il più piccolo dei figli attaccato al seno, va a lavorare per l’Onu nel Puntland, la regione più «lieve» della Somalia. Nella donna in tv ha rivisto sua madre, nomade che vendeva tè nelle vie di Mogadiscio, ha pensato agli 11 fratelli mai conosciuti, morti per malattie curabili: diarrea, morbillo, polmonite…

Fu per cercare «pascoli più verdi», come dicono i somali, che sua madre partì per il Kenya con la sorella. Sulla strada incontra un camionista, che le dà un passaggio. All’arrivo sono già sposati. Nasce Fadumo. E due fratellini. Il padre se ne va presto. I bambini crescono con magri diritti e tanta fame in un campo profughi, fino a quando nel 1989 vengono arrestati e deportati con la madre. «Uno dei miei primi ricordi è un biglietto che ci mise in mano la polizia kenyana con scritto Go Home . Ci servì come carta d’imbarco sul volo per Mogadiscio». Ma in Somalia infuria la guerra. La madre racimola i soldi per mettere i figli su un volo per Bucarest. Sull’aereo c’è un somalo che vive a Mosca che procura visti per l’accogliente Finlandia. La prima neve, la prima vera scuola. La madre li raggiungerà qualche anno più tardi, «e prima di morire – ha raccontato orgogliosa Fadumo – anche lei ha imparato a leggere e a scrivere». Oggi sua madre, davanti alla candidata presidente con zero chances, avrebbe lo stesso orgoglio nel cuore.

Michele Farina

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