Medio Oriente: uno scontro di barbarie

by Orsola Casagrande, Rapporto sui Diritti Globali 2015 | 16 Ottobre 2016 9:37

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Da Al Qaeda in Iraq allo Stato Islamico in Siria, al Califfato. La guerra permanente di George Bush e dei “volenterosi” ha lasciato il Medio Oriente in un caos totale dove morte, devastazione e profughi sono le caratteristiche più evidenti. Il presidente americano Barak Obama sta cercando di far riconciliare le forze reazionarie per ridurre almeno in parte un caos del quale l’Occidente e gli USA sono i principali responsabili.

Gilbert Achcar, libanese, politilogo e docente di relazioni internazionali alla School of Oriental and African Studies di Londra, non è ottimista sul futuro della regione e individua nel partito di sinistra pro-kurdo HDP (Halk Demokrasi Partisi) l’unica nota positiva, che si augura sia ispirazione per le forze progressiste nel mondo arabo.

 

 

Redazione Diritti Globali: Partiamo necessariamente dallo Stato Islamico. Cresciuto grazie alla compiacenza dell’Occidente (e di molti in Medio Oriente) e, come spesso ormai accade, rivelatosi una sorta di Frankenstein incontrollabile.

Gilbert Achcar: Il cosiddetto Stato Islamico, o Daesh come lo chiamiamo nei Paesi arabi, è essenzialmente il risultato del risentimento accumulato in questi anni. È per lo più di natura settaria, tanto in Iraq quanto Siria. Come è noto l’origine di questo movimento è legata all’organizzazione Al Qaeda in Iraq. Al Qaeda era riuscita a costruire una base solida in quel Paese e a prendere il controllo di un’ampia parte del territorio. All’inizio della seconda guerra del Golfo, nel 2003, Al Qaeda era riuscita a canalizzare il risentimento degli arabi sunniti in Iraq contro l’occupazione americana e contro quello che vedevano come una crescente dominazione sciita nel Paese. È questo che sta alla base della diffusione così ampia di Al Qaeda in Iraq; una diffusione che ha visto il suo apice dopo la battaglia di Falluja nel 2004.

Al Qaeda è stata successivamente sconfitta grazie al cambio di strategia degli Stati Uniti, che hanno cominciato a reclutare tribù arabe sunnite, confidando in esse e conferendo loro potere. Nel 2007-2008 Al Qaeda è stata sconfitta, ma è riuscita a riemergere con la guerra civile in Siria, dapprima costruendo la sua base vicino alla frontiera con l’Iraq. In seguito, a causa della violenza e brutalità del regime siriano, è riuscita a riconquistare terreno anche attraverso la sua stessa brutalità e violenza. Perché la violenza genera violenza e la barbarie da un lato apre la porta alla barbarie dall’altro.

Così è riuscito a espandersi il Daesh (che si è svincolato da Al Qaeda) e devo dire che il regime siriano non ha fatto nulla per evitare che crescesse. Anzi, era piuttosto felice di vedere una realtà come il Daesh prendere piede perché sapeva che avrebbe ben presto combattuto contro i gruppi di opposizione al governo. Cosa che è effettivamente accaduta. Allo stesso tempo, la brutalità che caratterizzava il Daesh avrebbe terrorizzato l’Occidente e ciò, secondo il governo siriano, avrebbe favorito un cambio di atteggiamento dell’Occidente nei confronti dello stesso regime. Questo pure è in certa misura avvenuto, infatti vediamo come siano in molti ormai a sostenere che bisognerebbe cooperare con Bashar al Assad nella lotta contro lo Stato Islamico.

Il Daesh dunque è riuscito a crescere in Siria. Parallelamente le cose si stavano muovendo nuovamente in Iraq. Quando nel 2011 le truppe americane hanno lasciato il Paese (non solo devastato ma ancora più diviso di prima e in guerra) nella popolazione sunnita ha cominciato nuovamente a crescere il risentimento. Nel 2012-2013 i sunniti si sono sentiti ancora una volta vittimizzati, in questa occasione dalla politica settaria del governo di Nuri al Maliki sostenuto da Teheran. Il risentimento si è tradotto in mobilitazioni di massa guidate dai leader di varie tribù nelle regioni arabo-sunnita in Iraq. Chiedevano la fetta di potere che gli spettava, ma Maliki ha rifiutato. Le tribù sunnite hanno reagito. A ciò bisogna aggiungere anche il loro rancore contro quella che è stata percepita come una ingerenza da parte del governo iraniano.

Questo insieme di cose ha permesso al Daesh di lanciare la sua offensiva in Iraq nell’estate del 2014, quando ha avuto la certezza che molte tribù (come molti uomini del vecchio regime di Saddam Hussein) lo avrebbero sostenuto. Il risultato è stato la creazione di un fronte sunnita piuttosto ampio, con il Daesh come forza centrale. Questo fronte si è diffuso rapidamente in molte regioni sunnite dell’Iraq.

 

RDG: Si intravede qualche luce in fondo a questo tunnel?

GA: Realmente, siamo di fronte a uno scenario che considero devastante, vista la brutalità del Daesh. È quello che io chiamo scontro di barbarie, la barbarie del regime siriano da un lato, del Daesh dall’altro, ma anche delle milizie iraniane che pure sono responsabili di atti barbarici in questo conflitto allargato. Tutto ciò è estremamente preoccupante ed è una terribile degenerazione, o meglio una nuova degenerazione di una situazione che sta precipitando nell’abisso. Questo è soprattutto il risultato dell’incapacità delle forze progressiste di prevedere quello che sarebbe successo. Si vede bene nel caso della Siria e della fase iniziale della rivolta, nel 2011. Onestamente io credo, come molti, che l’unico modo per sconfiggere il Daesh sia utilizzare la stessa strategia usata dagli USA per liberarsi di Al Qaeda nel 2007-2008 in Iraq, ovvero è necessario conseguire che siano le stesse popolazioni arabe sunnite a combattere il Daesh. Solo così lo Stato Islamico sarà isolato e sarà più facile sconfiggerlo. Questo tuttavia non sta avvenendo. Gli USA stanno cercando, attraverso negoziati, di arrivare a una riconciliazione, da un lato, tra Arabia Saudita e Turchia, che a un certo punto erano ai ferri corti. E, dall’altro, c’è l’accordo che gli USA hanno raggiunto con l’Iran, nel tentativo di allentare la tensione e nella speranza di creare un consenso più ampio che includa sia i sunniti che gli sciiti per cambiare la situazione. Cosa non facile da raggiungere.

 

RDG: Se dovesse fare un’istantanea dei vari Paesi in questo senso, che direbbe? Partiamo dall’Iran.

GA: L’Iran ha sempre sostenuto forze che sono sue alleate per questioni settarie più che politiche. Prendiamo il regime siriano, per esempio. La Siria non ha nulla in comune con l’Iran a livello di ideologia. Ma, in questa fase, entrambi beneficiano di un’alleanza strategica. L’Iran sta svolgendo il ruolo di potenza regionale piena di ambizioni e sta usando il settarismo per vincere. Ma questo settarismo è contrastato da quello dei sauditi, tra gli altri, che in questo momento sono alla controffensiva. Controffensiva che è apparsa evidente con l’intervento militare nello Yemen, ma anche con l’offerta di sostegno a varie forze islamiche che fanno parte della variegata opposizione al governo siriano. Da sottolineare che attualmente le forze principali di questa opposizione ormai sono tutte islamiche.

 

RDG: Qual è il ruolo della Turchia in questa che ha definito guerra allargata?

GA: La Turchia e il suo presidente, Recep Tayyip Erdogan, erano inizialmente alleati del Qatar, e in aperto confronto con i sauditi sulla questione Fratelli Musulmani. La situazione è mutata da quando si è installato il nuovo re saudita, Salman bin Abdulaziz Al Saudi. C’è stato un cambio di linea e i sauditi ora stanno cercando di unificare tutti i sunniti, compresi i Fratelli Musulmani. Un tentativo che è risultato anche in un riavvicinamento dei sauditi al Qatar e alla stessa Turchia. Non è casuale la visita di Erdogan al regno saudita a marzo 2015, tra l’altro in compagnia del presidente egiziano Al Sisi. Erdogan, come è noto, ha fatto della guerra contro la Siria e contro Bashar al Assad quasi una questione personale. Questo l’ha condotto a sostenere, almeno indirettamente, diciamo così, il Daesh. Certamente facilitandone i movimenti. Allo stesso tempo, la Turchia ha appoggiato direttamente al Nusra, l’organizzazione ufficiale legata ad Al Qaeda, sostenuta anche dal Qatar. Credo che a questo punto molto dipenderà da quello che succederà tra USA e Iran. Se l’accordo sul nucleare funzionerà, sarà un passo verso quello che gli USA stanno cercando di raggiungere, ovvero un accordo che unisca tutti contro il Daesh.

 

RDG: Lo Stato d’Israele sembra essere in una posizione di forza. È passato praticamente intonso – colpito solo da condanne verbali internazionali – attraverso l’attacco feroce ai palestinesi di Gaza nell’estate del 2014 e le successive aggressioni dell’estate del 2015.

GA: Israele è molto felice di tutto questo caos. Sempre che, chiaramente, non minacci direttamente i suoi interessi. Il governo di Benjamin Netanyahu pensa che più grande è il caos tra gli arabi, più benefici vi sono per Israele. In concreto, Israele preferisce che gli arabi combattano tra loro anziché contro Tel Aviv, o anche che Iran e arabi si scontrino tra loro. Inoltre, il governo israeliano è convinto che questo caos aumenti la sua importanza strategica nei confronti degli USA. È per questo che Netanyahu si comporta in maniera tanto provocatoria con l’Amministrazione Obama, perché pensa che non ha nulla da temere, che gli USA non faranno nulla contro di lui.

 

RDG: La situazione in Libano è estremamente tesa, un fatto ormai costante da almeno tre anni. Però, per il momento, il Paese non è esploso.

GA: La ragione per cui non esplode, nonostante questa tensione perenne, è che il maggior giocatore, Hezbollah, è totalmente occupato in Siria. E loro stessi non hanno alcun interesse di aprire un nuovo fronte in Libano. Allo stesso tempo, le principali forze sunnite in Libano sanno di non avere la stessa capacità militare di Hezbollah, per questo non premono il piede sull’acceleratore e preferiscono che la situazione non esploda. Direi che, come del resto è stato sempre, oggi più che mai il futuro del Libano dipende dal futuro della Siria. Se si raggiungerà un qualche accordo nella guerra in Siria si allenterà la tensione anche in Libano. Viceversa, se per esempio il governo siriano crollasse, questo potrebbe provocare l’esplosione della situazione in Libano.

 

RDG: Ci sono due questioni non risolte nel Medio Oriente: quella palestinese e quella kurda. Quest’ultima venuta alla ribalta con la resistenza di Kobane. Che cosa è cambiato dopo Kobane e  dopo l’aggressione a Gaza nell’estate del 2014?

GA: I palestinesi, soprattutto quelli in Siria, sono una delle vittime principali della guerra in Siria. Più in generale, credo che vista la posizione di forza in cui si trova Israele in questo momento, i palestinesi siano in una situazione molto difficile. Mi pare che il futuro immediato sia abbastanza cupo. Credo che i palestinesi, e mi riferisco soprattutto ad Hamas, abbiano capito che non possono sconfiggere Israele militarmente e per questo stanno puntando molto sull’arma della diplomazia, del negoziato o anche del boicottaggio, e ciò mi sembra un buon segnale in mezzo a tanta morte e disperazione.

Per quel che riguarda i kurdi, la situazione di guerra e l’indebolimento del governo centrale ha fatto sì che i kurdi potessero affermare con più forza i loro diritti nazionali. È accaduto in nord Iraq, che è uno Stato indipendente de facto, piaccia o meno, da quasi un quarto di secolo. La cosa nuova riguarda la parte siriana del Kurdistan, Rojava, che ha raggiunto anch’essa un’autonomia de facto. Non credo che si riuscirà facilmente a strappare ai kurdi quanto sono riusciti a conquistare. Anzi, credo che l’autonomia si consoliderà. Ciò che accade in Rojava, più che nel Kurdistan iracheno, ha relazione con ciò che sta succedendo in Turchia. Le ultime elezioni hanno confermato il partito HDP come una forza importante. È un risultato positivo, non solo per i kurdi ma anche per la sinistra in generale, perché i kurdi sono oggi l’unica popolazione nella regione che ha virato chiaramente a sinistra e questo è importante per lo sviluppo dell’intera regione.

 

RDG: Spostiamoci verso il Nord Africa, in Libia.

GA: L’Europa è molto preoccupata e così gli USA, soprattutto per l’espansione dello Stato Islamico in Libia. In Libia abbiamo due campi: da un lato, una parte del vecchio Stato, non necessariamente sostenitori di Gheddafi, dall’altro, le milizie islamiche. Le due fazioni stanno combattendo. Come ho detto prima, la politica degli Stati Uniti – e l’Europa la condivide – è quella di riconciliare i vari gruppi e fazioni, che una volta uniti dovrebbero combattere contro l’ISIS. Questa politica di “riconciliazione” ha avuto un risultato, finora, in Tunisia, dove c’è un governo di coalizione, con islamici e forze del vecchio regime al governo.

Questa stessa politica, che è degli USA, dell’Europa ma anche dei sauditi – è stata adottata infatti dal nuovo re – viene messa in pratica anche in Egitto, con le pressioni su al Sisi affinché cerchi una riconciliazione con i Fratelli Musulmani. I sauditi hanno come obiettivo quello di unire tutti i sunniti. In Egitto la cosa sembra complicata, anche se ci sono segnali che bisogna seguire con attenzione. C’è, infatti, una grande scissione all’interno dei Fratelli Musulmani in Egitto.

 

RDG: Avrà successo tale politica, visto che i principali responsabili di tanto caos sono gli stessi che oggi cercano di riconciliare?

GA: Non mi azzardo a fare pronostici. Non sono ottimista, però io spero che questa politica abbia successo, non perché penso che la riconciliazione tra forze reazionarie sia qualcosa di buono, ma perché l’alternativa è che questa guerra continui all’infinito. E ciò significherebbe centinaia di migliaia di persone morte e in fuga. Non dimentichiamo che l’Europa sta chiudendo la porta ai profughi, specialmente siriani e africani.

Spero che queste guerre cessino e si ritorni a parlare di politica, e spero che in futuro in questa tormentata regione araba possano crescere tanti HDP.

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