Stage in azienda, precari già da piccoli

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Il monitoraggio di Cgil, Flc Cgil e Rete degli Studenti Medi e Fondazione Di Vittorio svela il carattere occasionale dell’alternanza e la mancanza di un progetto complessivo. La protesta degli studenti del Fronte della gioventù comunista

Sull’alternanza scuola-lavoro il governo ha puntato molte carte della «Buona Scuola». In ballo c’è il progetto che sta nel cuore di tutti i «riformatori» dell’istruzione da vent’anni: la sua contaminazione con la formazione professionale e l’idea che la scuola deve servire a imparare un mestiere, a entrare nel mercato del lavoro dove praticare le nozioni apprese tra i banchi. Se il futuro di uno studente oggi in Italia dev’essere quello di fare l’apprendista ed entrare nel mondo del lavoro, è bene confrontare le ambizioni ideali con la realtà dei numeri. Il risultato non è confortante.

Ieri il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha presentato i dati sull’«alternanza scuola-lavoro» e i risultati del primo anno di attuazione obbligatoria. Gli studenti coinvolti sono aumentati: 652.641, contro i 273 mila del 2014-15, con una crescita del 139%. L’obiettivo per il secondo anno dell’obbligo è arrivare a 1.150.000 di studenti, 1,5 milioni a regime. L’anno scorso gli studenti delle classi terze coinvolti sono stati il 90,6%. Nei licei l’aumento è stato del 50%. Un «vero e proprio boom» sottolineano dal ministero.

Un bilancio di questa esperienza è stato fornito dal monitoraggio promosso da Cgil, Flc Cgil e Rete degli Studenti Medi, realizzato dalla Fondazione Di Vittorio e presentato ieri a Roma. Gli elementi preoccupanti sono numerosi: l’alternanza ha ancora un carattere occasionale, manca un progetto complessivo. Un ragazzo su 4 è fuori da percorsi di qualità, il 10% ha partecipato solo ad attività propedeutiche, il 14% solo ad esperienze di lavoro. Nell’80% dei casi queste esperienze sono state fatte d’estate, quando l’attività didattica è sospesa. La stragrande maggioranza è nata in modo occasionale e non risponde a una progettazione pluriennale. Il 90% dei giovani è stato ospitato in piccole o microimprese: il 50% fino a 9 dipendenti e il 40% sotto i 50 lavoratori. Questo non aiuta il controllo sul valore formativo dell’esperienza, come non aiuta il fatto che non siano stati definiti criteri e procedure di accreditamento delle capacità formative delle strutture ospitanti. Non è stato inoltre attivato il registro nazionale delle imprese dal quale le scuole sono obbligate a individuare il soggetto ospitante. Si conferma infine la separazione tra istituti tecnici e licei: i primi hanno convenzioni con le imprese, i secondi con gli enti pubblici. L’impostazione aziendalista è nuova. Vecchissima la distinzione tra chi deve «fare» e chi deve «pensare».

Per la Cgia di Mestre, dall’inizio della crisi (2009) al 2015 gli apprendisti occupati solo nelle aziende artigiane sono diminuiti del 45 per cento. Le regioni più colpite sono state quelle meridionali (-61%), seguono il Centro (-44), il Nordovest (-43) e il Nordest (-33). Il crollo è avvenuto in tutti i settori. Questa prospettiva interessa da vicino gli studenti che saranno immessi su questo mercato del lavoro. In un paese dove dilagano i voucher si capisce la ragione per cui alcuni di loro pensino che la professionalizzazione dell’istruzione abbia lo scopo di fargli assaporare il precariato da piccoli. «L’alternanza deve insegnare il valore del lavoro, non prepararci a sfruttamento, precarietà e assenza di diritti» hanno detto ieri a Roma gli studenti del Fronte della Gioventù Comunista che hanno contestato il convegno sull’alternanza.

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