Stati Uniti. Perché non c’è nessuna «rivoluzione»

Stati Uniti. Perché non c’è nessuna «rivoluzione»

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Nei numeri del voto non c’è nessuna «rivoluzione Trump»: gli esiti dicono che il paese è diviso a metà, come tutti sapevano anche prima delle elezioni.

Più precisamente, se si guarda al voto popolare, la metà di Clinton è un po’ più abbondante di quella di Trump. Anche se i dati non sono definitivi in un terzo degli stati, Clinton risulta in vantaggio di circa 300.000 voti. Probabilmente alla fine saranno di più, e lo scarto a suo favore sarà superiore a un punto percentuale.

Ma Clinton ha perso, così come aveva perso Gore nel 2000, nonostante mezzo milione di voti popolari in più rispetto a Bush jr. Questo fa rabbia, indipendentemente dalla simpatia o antipatia per la candidata e dalle opinioni in merito all’opportunità stessa della sua candidatura.

Trump ha ripetuto spesso, durante la campagna, che il «sistema è falsato». È vero. Lo è in molti modi. E il sistema maggioritario e dei Grandi elettori, che lui temeva giocasse a suo sfavore, gli ha dato invece la vittoria. E se prendendo anche solo 190.000 voti in più Clinton si fosse presa i 49 Grandi elettori di Florida e Pennsylvania oggi i commenti sarebbero tutti sul suo previsto successo, sulla felice eredità di Obama e così via.

Dire tutto questo non è consolatorio; anzi, dovrebbe aiutare a capire quanto un candidato così poco qualificato, come era stato anche Bush, possa arrivare alla Casa Bianca grazie a un meccanismo elettorale concepito proprio per rendere possibile lo stravolgimento del voto popolare. Certo, in teoria, esiste la possibilità che un certo numero di Grandi elettori decida di «deviare» il proprio voto verso Clinton, dando a lei una vittoria coerente con la volontà popolare. Ma è ovvio che non accadrà, e a partire dal prossimo gennaio Trump potrà cercare di attuare la sua «rivoluzione» reazionaria.

Si vedrà allora se le mobilitazioni di base che avevano sostenuto le candidature di Obama, di Sanders e in parte di Clinton; se i movimenti contro le disuguaglianze economiche e per l’innalzamento del salario orario minimo; se i movimenti di neri e ispanici troveranno la forza per contrastare un Congresso a maggioranza repubblicana e il Trump presidente, che insieme – nulla come il Potere ha il potere di smussare diffidenze personali, differenze politiche e divisioni interne ai partiti – cercheranno di smontare quel tanto di stato sociale ancora in piedi e che Obama aveva cercato di rinforzare.

Molti di quelli che scrivono in questi giorni si dicono poi preoccupati per la democrazia, facendo finta di non sapere o non essendosi mai preoccupati, prima, per la tanta democrazia che i plutocrati hanno già sottratto agli statunitensi negli ultimi decenni.

Anche Obama, si dice, è stato sconfitto. È vero solo in parte.

Non c’è dubbio che la sua visione politica non sia stata riproposta e che la «linea» più moderata di Clinton sia uscita perdente, ma non si può sottovalutare né il fatto che non era lui a essere in lizza, né che le differenza di politica e di personalità tra lui e Hillary Clinton erano grandi e note, né che dietro il candidato c’è sempre – almeno tra i democratici, nel bene e nel male – anche il partito.

Quella in cui siamo ormai ingabbiati, è una politica personalistica. E se meno afroamericani, meno ispanici, meno giovani hanno votato per Clinton di quanto avevano votato per Obama quattro anni fa (88% invece di 96%; 65 invece di 71; 55 invece di 60) questo vorrà pur dire qualcosa.

E’ diminuito ancora il numero dei votanti (di circa tre milioni), ma la cosa può anche essere dovuta in buona parte al disgusto per questa campagna elettorale, oltre che al fatto che Hillary è stata meno elettrizzante e convincente di Barack.

I democratici hanno perso 6 milioni di voti popolari rispetto al 2012; e Trump ha vinto nonostante abbia preso oltre un milione di voti in meno rispetto a Mitt Romney.

Sono stati il Sud, tutto repubblicano da cinquant’anni, le Praterie agricole e la provincia agricola ovunque a votare per Trump. Le città sono rimaste prevalentemente democratiche, ma non abbastanza.

Il quadro merita analisi non frettolose. Sottolineo un solo punto.

In Pennsylvania, Michigan e Wisconsin – quegli stati della rust belt che avrebbero dovuto dare, ma non hanno dato, la maggioranza a Clinton – i centri industriali o ex industriali hanno effettivamente votato per lei.

Non c’è dubbio che la conferma del voto democratico sia anche il frutto delle politiche di sostegno alle imprese e all’occupazione e di estensione dei sussidi ai disoccupati messe in atto in quelle aree da Obama negli anni della crisi. Ma in quelle città tante industrie hanno chiuso o se ne sono andate e hanno lasciato dietro di sé macerie tanto fisiche, quanto demografiche ed elettorali.

Per esempio, nella Wayne County della disastrata Detroit, Clinton ha perso 79.000 voti rispetto al 2012, e ha poi «perso» il Michigan per 12.000 voti. A Milwaukee ha avuto 43.500 voti in meno e ha perso il Wisconsin per 27.000 voti. La Pennsylvania è stata persa per 68.000 voti, nonostante le maggioranze democratiche a Filadelfia, Pittsburgh e negli altri centri.

In altre parole, quel voto «operaio» che non è solo bianco, e che Obama aveva trattenuto nel 2012, e che ora molti hanno sbrigativamente assimilato al voto «bianco» e «arrabbiato» per Trump, è stato molto probabilmente perso, più che per i limiti di Clinton (e nonostante i meriti di Obama), a causa della fuga dalle città una volta operose.

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