Approdi e naufragi. Le icone delle stragi quotidiane dei migranti
Quando nell’ottobre di tre anni fa, 366 migranti morivano al largo della costa di Lampedusa, molte erano già state le tragedie del Mediterraneo e, purtroppo, altrettante erano lì da venire. Eppure in quel momento la singolare vicenda, più di altre, rappresentava un’ecatombe difficile da mettere in parole, ancor più da spiegare.
È STATO COSÌ anche per Fabrice Olivier Dubosc, psicologo analista con una pratica clinica transdisciplinare, che ha deciso di scrivere una lunga riflessione a partire dalla «cerimoniosa quanto retorica sepoltura di Stato». Sono «tracce», scrive lui stesso, per una cosiddetta psicologia post-coloniale che hanno poi assunto la fisionomia di un libro dal titolo eloquente, Approdi e naufragi. Resistenza culturale e lavoro del lutto (Moretti&Vitali, pp. 292, euro 20).
Il volume non si concentra però sul fenomeno della migrazione, prende avvio sgranandosi per altre strade che si incrociano con esodi ugualmente complessi. Si affastellano così numerose immagini, per esempio Nostra Signora di Lampedusa che nel XVII secolo approdava dalla Sicilia al Brasile insieme ad altre irmandades; icone che garantivano degna sepoltura e che venivano adottate con devozione dalle confraternite di schiavi brasiliani. Ciò per dire che la geografia critica di Dubosc è ricca di stratificazioni il cui perno è costituito dallo scandalo di non riuscire a trovare un orientamento tra le irrimediabili immagini di morte che quotidianamente si ripetono.
SE È VERO CHE INTERCETTARE una cartografia di storie consente di costruire una genealogia di ciò che accade, è lecito immaginare che si possa determinare anche la scoperta di numerose figure, rispondenti a ulteriori narrazioni, capaci di dissonanza critica. Quindi Dubosc, insieme alla Madonna liberatrice, racconta la storia di Benedetto di San Fratello, Margaret Garner, Sara Baartman e la resistenza aborigena di Truganini. E poi gli apparati teorici, offerti in particolare da Paul Gilroy e Achille Mbembe.
È tuttavia in ciò che Dubosc chiama «pulsione umana del narrare» che sta il fulcro di questo volume, interessante nella sua nervatura poiché – oltre a raccontare e mettere insieme storie poco note – possiede un buon punto di avvistamento.
LA NARRAZIONE DEL SÉ appartiene infatti non solo a chi sopravvive bensì a quella misura del lutto – e delle vite che sembrano esserne «degne» o «indegne» – che si trasforma in eredità. In questo discorso, e nella formazione dell’autore, molto peso ha avuto Jung e la lezione del Libro rosso. Suggerimento, in capo ai defunti che reclamano ascolto e «richiedono istruzione», che è attraversato dalla lettura dell’ultima Judith Butler e della straordinaria risorsa della vulnerabilità. Basterebbe solo questo aspetto per dare ad Approdi e naufragi una possibilità di approfondimento. E invece c’è molto di più in questo libro piccolo, complesso e ricco di aperture critiche e politiche da esplorare e interrogare ancora.
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