Stati uniti e Russia. Obama, uscita d’insicurezza

by Tommaso Di Francesco, il manifesto | 31 Dicembre 2016 9:34

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Ora siamo alle sanzioni a Mosca e alla cacciata dei diplomatici russi dagli Stati uniti. Eppure c’è il rischio che l’attribuire a Putin ogni malefatta e responsabilità per le elezioni presidenziali Usa può portare acqua al suo mulino, ingigantendone la figura. Quando il suo unico merito è forse avere risollevato in chiave nazional-populista le sorti della Russia dopo il crollo dell’Urss e dopo le devastazioni dell’anti-gorbacioviano Boris Eltsin, il padre putativo di Putin

È una sorpresa, un botto di fine anno la decisione di Barack Obama, a 20 giorni dalla sua uscita dalla Casa bianca e nello stesso giorno in cui il leader russo Putin ha annunciato la tregua in Siria, di mettere nuove sanzioni alla Russia espellendo 35 diplomatici russi per spionaggio, cioè per ingerenza nelle elezioni presidenziali statunitensi.

E finora senza pari ritorsione russa: Putin aspetta Trump. Sembra di essere «ringiovaniti», riecco gli anni Sessanta-Settanta. Riecco la guerra fredda e il mondo diviso in blocchi. L’Urss da una parte l’Occidente e gli Stati uniti dall’altra, con tanto di alleanze militari contrapposte. Apriamo gli occhi. La verità è un’altra. Se di conflitto tra blocchi si può parlare, lo scontro è ormai all’interno dei mondi prima contrapposti, dentro gli Stati uniti, dentro la Russia e dentro le rispettive sfere d’influenza. È la deriva di quella che dopo l’89 chiamavano la «fine della storia», che travolge sistemi e continenti. Nel frattempo nuove guerre, nuove forme della politica si sono rapportate al fantomatico popolo. È stato l’anno mondiale dell’avvento del populismo, al governo come con Trump e con la Brexit, oppure, e perfino più pericolosamente, all’opposizione

La decisione di Obama sorprende perché maschera un conflitto tutto inter-americano. Chiamando in causa il mondo. E da subito l’Europa, già coinvolta in improduttive sanzioni americane alla Russia per l’architettato incendio ucraino.

La nuova crisi si aggiunge in elenco ad altre due questioni, sempre negli ultimi giorni della sua presidenza. Certo c’è da parte di Obama la volontà di riaffermazione del principio «un presidente alla volta» e insieme l’avviso che sarà lui a guidare la leadership dell’opposizione al neo-presidente Trump. Ecco dunque l’ordine presidenziale di straordinaria importanza per il clima e l’ambiente dello stop alle trivelle in Artico e Atlantico; poi, dopo l’astensione al Consiglio di sicurezza Onu che ha condannato l’illegalità delle colonie israeliane, il discorso di addio sul Medio Oriente di John Kerry. Che ha accusato il governo israeliano di Benjamin Netanyahu di boicottare la pace con la politica degli insediamenti. Infine le sanzioni alla Russia e la cacciata dei diplomatici per haker-spionaggio che avrebbero influenzato il voto delle presidenziali americane. Tutte scelte che vanno interpretate come un vero sgambetto all’operatività dell’imminente neo-eletto Trump. Che non a caso minaccia di «stare sereni» perché sta arrivando.

Le prime due scelte, fondamentali e più che condivisibili, mostrano però il fianco. Avvengono infatti dopo otto anni di presidenza che sugli stessi argomenti è stata immobile o ha guardato da un’altra parte. Otto anni corrispondono esattamente a 2.920 giorni. Com’è possibile che solo negli ultimi 27 si sia accorto che le trivellazioni dell’Artico e dell’Atlantico corrompevano e inquinavano l’ambiente del mondo intero? Comunque, meglio tardi che mai. E per quel che riguarda il conflitto israelo-palestinese, come denunciare solo negli ultimi 20 giorni di presidenza che gli insediamenti israeliani compromettono la soluzione «due popoli per due Stati»? Di sicuro John Kerry ha ristabilito un principio di verità, anche per il futuro.

Ma ora che quella soluzione è diventata pressoché impossibile: le colonie – che hanno avuto grande espansione proprio in questi ultimi otto anni – come un alveare, in centinaia e centinaia nella Cisgiordania occupata, impediscono ormai concretamente la continuità e la legittimità territoriale, istituzionale e politica dello Stato di Palestina. Non era forse presidente degli Stati uniti Obama quando questo disastro avveniva, tale da far degenerare nella rabbia e nell’impotenza la società e la politica palestinese?

Ora siamo alle sanzioni a Mosca e alla cacciata dei diplomatici russi dagli Stati uniti. Eppure c’è il rischio che l’attribuire a Putin ogni malefatta e responsabilità per le elezioni presidenziali Usa può portare acqua al suo mulino, ingigantendone la figura. Quando il suo unico merito è forse avere risollevato in chiave nazional-populista le sorti della Russia dopo il crollo dell’Urss e dopo le devastazioni dell’anti-gorbacioviano Boris Eltsin, il padre putativo di Putin.

Sarebbero dunque gli haker russi – nuovo topos narrativo – i responsabili della sconfitta di Hillary Clinton e dell’avvento di Trump? Eppure lo stesso Obama nel suo ultimo e sincero discorso dalla Casa bianca ha confessato: «Se avessi corso io contro Trump avrei vinto». Sarebbero state le ingerenze esterne e gli automatismi dei cervelli elettronici a portare alla sconfitta della candidata democratica? Non i suoi limiti e le sue ambiguità, con mail private nei server di Stato e viceversa – altro che spie – e soprattutto la sua strategia di guerre umanitarie, in Libia (con la tragedia di Bengasi dell’11 settembre 2012 che l’ha segnata così profondamente) e poi in Siria. Non dimenticando l’aver portato, con la crisi ucraina, lo scudo antimissile ai confini russi.

Il fatto è che resta cogente per Obama la perdita del Medio Oriente, mentre l’alleata d’acciao, l’Arabia saudita, entra in una zona di silenzio dopo avere appiccato in Siria il fuoco del jihadismo sunnita; mentre Putin annuncia negoziati e tregua in Siria dopo avere strappato Aleppo ai qaedisti e la battaglia irachena di Mosul si annuncia come un’altra Aleppo. E cogente è lo sconquasso delle rivelazioni di Wikileaks, di Assange e la fuga di Snowden «eroe americano» riparato a Mosca. Come brucia l’accordo strategico-economico di Putin con il Giappone. E paradosso dei paradossi, l’unica rivendicazione che Obama può vantare è l’accordo sul nucleare civile dell’Iran, che non a caso il nuovo guerrafondaio Donald Trump vuole cancellare, come la ripresa di rapporti con Cuba: anche per quell’accordo del 2013 Barack Obama ha dovuto ringraziare pubblicamente Putin.

Pensando all’arrivo di Donal Trump il presidente peggiore e più di destra che gli Stati uniti abbiano mai avuto, forse alla fine rimpiangeremo Obama. Non lo rimpiangeremo però per questo suo protagonismo tardivo. Non per questa sua uscita d’insicurezza.

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