Fausto Durante. Diritti sociali e del lavoro come pietra angolare del nuovo modello europeo

by Monica di Sisto e Alberto Zoratti, 14° Rapporto sui diritti globali | 1 Dicembre 2016 8:21

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Intervista a Fausto Durante, di Monica di Sisto e Alberto Zoratti, per il 14° Rapporto sui diritti globali

Per Fausto Durante, responsabile nazionale della CGIL per le politiche europee e internazionali e membro del Comitato esecutivo della Confederazione Europea dei Sindacati, aprire maggiormente i mercati, di quanto già non siano, deve significare dare nuove opportunità di sviluppo e di progresso, in un quadro di sostenibilità ambientale, ecologica e sociale, ai popoli che in questi anni hanno prevalentemente subito gli effetti della globalizzazione senza regole dell’economia e di un modello di sviluppo non più sostenibile. I Trattati TTIP e CETA, invece, vogliono ulteriormente stabilire la supremazia degli interessi delle multinazionali rispetto a quelli degli Stati e dei cittadini. Secondo Durante, occorre poi escludere dalla logica del puro scambio commerciale i servizi pubblici e i beni comuni, a partire dall’acqua. In generale, all’agenda neoliberista seguita dai governi e dalla Commissione Europea, bisogna sostituirne un’altra, quella di un modello sociale ed economico alternativo

 

Rapporto sui Diritti Globali: Secondo la società civile, i Trattati TTIP e CETA hanno rappresentato il simbolo di una politica commerciale europea troppo orientata all’apertura dei mercati e alla tutela degli investitori. Qual è la posizione della CGIL e dei sindacati internazionali su un aspetto così complesso per i comuni cittadini?

Fausto Durante: Negli accordi commerciali di nuova generazione, diffusi su scala globale negli ultimi anni anche a seguito della crisi della WTO, gli aspetti dell’apertura dei mercati, dell’abbattimento delle procedure di regolazione negli scambi e, soprattutto, della protezione degli investimenti sono diventati predominanti. Spesso, anzi quasi sempre, a scapito sia del diritto e dei sistemi giuridici degli Stati nazionali sia della necessità di orientare il commercio internazionale verso una crescita equilibrata e armonica, in cui – come sostiene il movimento sindacale europeo e internazionale – le esigenze dei Paesi in via di sviluppo siano tenute nella giusta considerazione. Per noi la formula “mercati più aperti” deve significare dare nuove opportunità di sviluppo e di progresso, in un quadro di sostenibilità ambientale, ecologica e sociale, ai popoli che in questi anni hanno prevalentemente subito gli effetti della globalizzazione senza regole dell’economia e di un modello di sviluppo non più sostenibile. Un fenomeno che ha accentuato squilibri e disuguaglianze alla base di tante tensioni nello scenario globale. In particolare, il sindacato a tutti i livelli, in Europa come negli USA e in Canada, contesta l’idea che gli investimenti delle multinazionali debbano godere di un quadro di protezione speciale, come prevedono TTIP e CETA, una sorta di arbitrato internazionale con regole e protagonisti orientati in direzione delle imprese. Così si stabilisce il primato delle multinazionali e degli interessi degli azionisti sugli Stati e sulle loro giurisdizioni, stabilendo un regime speciale di garanzia e tutela degli investimenti anche di fronte a interessi di natura generale e di valore collettivo. Regime di cui, peraltro, non c’è alcun bisogno in trattati commerciali che riguardano Paesi in cui esistono tanto una radicata cultura del diritto quanto sistemi giuridici strutturati e forti. Gli stessi a cui si rivolgono i comuni cittadini per avere giustizia. Non è possibile pensare che le imprese, già fortissime per proprio conto quanto a potere economico e di condizionamento politico, abbiano anche uno speciale sistema di soluzione a loro favore delle controversie verso gli Stati, ossia verso chi rappresenta gli interessi generali in virtù di un processo democratico.

 

RDG: Sia la differente importanza data ai diversi capitoli in negoziato (basti pensare a quello sugli investimenti e a quello sullo sviluppo sostenibile, in primis il diritto del lavoro), sia il differente potere tra le stesse direzioni della Commissione europea (DG Trade e DG Environment, ad esempio) sembrano mostrare un canale preferenziale per le questioni economiche rispetto al resto. È solo una percezione o è una politica applicata?

FD: Noi crediamo che si tratti dell’applicazione cosciente di scelte politiche e di misure economiche collegate, nel quadro di una più generale impostazione della Commissione Europea. Un’impostazione che, ormai da un decennio, dall’inizio della grande crisi, vede l’Europa impegnata a mettere in pratica le teorie liberiste più spinte, nell’illusione di rispondere così alla sfida della competitività internazionale e alla pressione della crisi stessa. Una crisi che, invece, avrebbe bisogno di risposte neokeynesiane, improntate alla ripresa della domanda e alle politiche di investimenti pubblici e privati. L’esatto opposto di quanto finora fatto dalla Commissione Europea e dagli istituti economici e finanziari internazionali, le cui scelte hanno peggiorato le condizioni di vita e di lavoro in tutta Europa e, in particolare, si sono accanite contro i cittadini e i lavoratori in Grecia, in Portogallo, in Spagna, in Irlanda, in tutti i casi in cui si è vista la cosiddetta Troika in azione. L’Europa ha bisogno di un nuovo corso, politico ed economico, per tornare a essere un progetto condiviso.

 

RDG: Liberalizzazioni all’esterno, austerità all’interno: molti guardano a questo come a un nuovo mercantilismo, che considera i lavoratori come variabile dipendente dalle esigenze di chi poi dovrà esportare. È una lettura corretta? E, se lo è, cosa si può mettere in campo per invertire la tendenza?

FD: Nelle scelte recenti della Commissione Europea, come di gran parte dei governi nazionali, il lavoro ha perso sempre più centralità e peso, sovrastato dagli interessi delle imprese e dall’imperativo della lotta per la competizione globale. L’idea prevalente, oggi, è che il lavoro sia una variabile secondaria e marginale del processo della produzione, da pagare poco e da spogliare di diritti e valore. Esattamente l’opposto di quanto il lavoro ha rappresentato nel modello sociale europeo e nelle ragioni del successo dell’Europa, prima del corto circuito attuale. L’equilibrio tra il lavoro e l’impresa, il ruolo di guida della dimensione pubblica, la contrattazione collettiva e i diritti sociali, il welfare e le politiche di promozione dell’economia, tutto ciò è stato il modello europeo e il peculiare compromesso sociale che ha fatto il successo dell’Europa. Quel modello è stato messo in crisi dalle politiche economiche e sociali sbagliate della Commissione europea (basti pensare alle direttive che hanno deregolamentato le norme comunitarie sul lavoro, alle questioni che riguardano il distacco transnazionale dei lavoratori, all’armonizzazione al ribasso di diritti, tutele e salari nel gioco competitivo tra gli stessi Stati dell’UE). Ma è stato attaccato duramente anche dalle tante riforme del lavoro che i governi nazionali hanno imposto, spesso senza confronto con le organizzazioni di rappresentanza del lavoro. Si tratta di una tendenza da invertire proprio per rilanciare il modello sociale europeo, ovviamente in una versione aggiornata che tenga conto delle questioni legate alla sostenibilità del modello produttivo e alle questioni poste dall’emergenza climatica e ambientale. Serve un nuovo modello europeo, nel quale il pilastro dei diritti sociali e del lavoro sia non un titolo a effetto ma la pietra angolare del sistema.

 

RDG: Multinazionali e diritti. Sono diversi gli ambiti dove si discute di un tema così delicato: OCSE, Nazioni Unite. A che punto siamo con la riflessione e ci sono passi in avanti per garantire ai lavoratori di qualsiasi parte del mondo adeguati diritti e una salario dignitoso ed equo?

FD: Si tratta di un tema cruciale per il futuro del lavoro e dei rapporti di forza su scala globale nel mondo di domani. Per questo la discussione è particolarmente animata, sia in ambito internazionale all’interno dell’OCSE, dell’ILO e delle istituzioni tripartite, sia nella dimensione nazionale. Il punto su cui insistere, per noi, è quello della garanzia del rispetto di leggi e contratti nell’insieme del processo produttivo e dunque lungo tutta la filiera di appalti e subappalti, dall’impresa madre (quasi sempre una multinazionale di dimensioni globali) fino all’ultimo anello della catena della creazione di valore. Spetta all’impresa committente – la stessa impresa che magari in patria firma accordi quadro internazionali e intese globali, per poi chiudere gli occhi su quanto accade nei Paesi low cost dove è stata delocalizzata la produzione – vigilare perché le aziende della subfornitura rispettino tutti gli standard sul trattamento dei lavoratori, dal diritto a salari dignitosi a quello alla contrattazione collettiva, dalla libertà di associazione e iniziativa al diritto di sciopero. E perché, allo stesso tempo, sia bandito dalla filiera il ricorso a lavoro schiavo o forzato o a manodopera in età minore. È evidente che anche i governi dei singoli Stati hanno la responsabilità di attuare quanto prevedono le linee guida e i principi stabiliti in sede internazionale. Si tratta, in generale, di indirizzi del tutto condivisibili. Ciò che manca è uno strumento che renda vincolante e obbligatorio per le imprese adottare quei principi e quelle linee guida, superando uno schema di carattere volontaristico che ha mostrato sinora di non essere particolarmente efficace e, allo stesso tempo, definendo un meccanismo sanzionatorio in grado di esercitare una reale funzione di deterrenza e di scoraggiamento rispetto ai comportamenti non virtuosi. Su questo continueremo a esercitare tutta la nostra capacità di iniziativa, in raccordo con le federazioni internazionali di categoria, le Global Unions. Ci aspettiamo, in modo particolare, un impulso nuovo su tutta la questione da parte della prossima presidenza del G20, che toccherà alla Germania, un Paese che al riguardo ha sempre mostrato una particolare sensibilità.

 

RDG: Spesso si accusa la società civile di avere una posizione preconcetta sulle questioni riguardanti il mercato. Esiste un’agenda positiva da spingere per dimostrare che oltre all’opposizione a questo modello di sviluppo esiste una lettura diversa che andrebbe sostenuta e consolidata?

FD: La discussione sui Trattati TTIP e CETA ha messo in evidenza come ci siano, anche nella società liquida del tempo presente, organizzazioni e gruppi ancora in grado di esercitare un controllo democratico sulle scelte dei governi e delle istituzioni sovranazionali. La campagna Stop TTIP, animata in tutta Europa e negli USA da una miriade di comitati, associazioni, sindacati, ha reso possibile mettere in discussione il percorso verso la firma di un Trattato che, altrimenti, sarebbe stato l’esito inevitabile di un negoziato condotto in un clima di silenzio e sotto una coltre di segretezza strettissima. Alla denuncia e alla protesta, però, questo movimento unisce la capacità di proposta. Non siamo ideologicamente contrari al commercio internazionale, anzi è vero il contrario. Siamo, tuttavia, fermamente contrari all’idea oggi dominante secondo cui le regole del commercio internazionale devono servire a perpetuare il dominio economico delle aree forti su quelle deboli e ad ampliare a dismisura i margini di manovra delle imprese, senza controlli né vincoli di responsabilità sociale. Siamo per escludere dalla logica del puro scambio commerciale i servizi pubblici e i beni comuni, a partire dall’acqua. Siamo a favore della definizione di regole e strumenti per la tutela dei diritti dei cittadini e dei consumatori: la precauzione preventiva e il principio di informazione sulla qualità degli alimenti che si consumano e dell’aria che si respira, il mantenimento degli standard di eccellenza per le produzioni tipiche e a denominazione d’origine controllata, l’esclusione dai circuiti commerciali legali di prodotti contraffatti e di alimenti nel cui ciclo si siano adoperati prodotti pericolosi o frutto di manipolazione, l’agricoltura di qualità senza pesticidi o OGM. E poi il rispetto del lavoro, delle persone che lo svolgono e delle organizzazioni che lo rappresentano, di fronte al sistema delle imprese che vuole sempre più mano libera su scala planetaria. Certo, non è l’agenda neoliberista oggi così popolare tra i governi. È un’altra agenda, quella di un modello sociale ed economico alternativo, che ha bisogno di battaglia culturale e di iniziativa politica su scala internazionale per affermarsi.

 

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Fausto Durante: è coordinatore dell’Area delle politiche europee e internazionali della CGIL dal marzo 2015 e componente del Comitato esecutivo della Confederazione Europea dei Sindacati da maggio 2012. Sempre da maggio 2012 ha avuto la responsabilità del Segretariato Europa della CGIL. In precedenza, ha maturato una lunga esperienza nel sindacato dei metalmeccanici. Dal 1993 al 2000 è stato segretario generale della FIOM di Lecce; dal 2000 al 2004 è stato responsabile dell’Ufficio Europa della FIOM nazionale, componente del Comitato esecutivo della Federazione europea dei metalmeccanici, coordinatore dei Comitati aziendali europei di General Electric Oil&Gas, di Electrolux e di ILVA; dal 2004 al 2010 è stato segretario nazionale della FIOM con delega alla siderurgia, al settore ICT, all’industria ad alta tecnologia, alla componentistica auto. Per la FIOM nazionale ha anche seguito la previdenza complementare.

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