Stefano Cecconi: Rilanciare il Servizio Sanitario Nazionale per promuovere equità

by Susanna Ronconi, 14° Rapporto sui diritti globali | 29 Dicembre 2016 8:36

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Intervista a Stefano Cecconi, a cura di Susanna Ronconi, dal 14° Rapporto sui diritti globali

 Le disuguaglianze nella salute sono un problema anche italiano, e anche se l’Italia a livello comunitario non registra una situazione tra le peggiori, tuttavia le disuguaglianze correlate a variabili quali reddito, qualità del lavoro, disoccupazione sono evidenti e anche crescenti. La risposta politica al bisogno di una maggiore equità è ancora carente, è un obiettivo tuttora ancillare nell’agenda politica dello Stato e delle Regioni. Qualcosa però si sta muovendo, e il movimento sindacale – sia quello di settore che la contrattazione sociale – si è mobilitato. Resta il grande nodo di un chiaro disinvestimento nel Servizio Sanitario Nazionale, che tocca significativamente anche i lavoratori del comparto sanitario, con il rischio di intaccare quel capitale fondamentale per la salute dei cittadini che è la qualità del lavoro e le professionalità. Dello scenario italiano e delle sue prospettive ragioniamo con Stefano Cecconi, responsabile nazionale delle politiche della salute e della contrattazione sociale.

 

Redazione Diritti Globali: Nel Libro bianco sulle disuguaglianze nella salute a cura del Gruppo ESS (Equità nella Salute e nella Sanità) si fa il punto su come i diversi determinanti sociali (posizione sociale, reddito, occupazione e qualità del lavoro, istruzione) concorrano alla qualità della salute delle persone, prima e insieme all’accesso alle cure. L’Italia risulta essere “disuguale” anche sotto questo profilo, soprattutto in relazione a istruzione, reddito e occupazione. Come sta attraversando il sindacato, questa tematica?

Stefano Cecconi: Le disuguaglianze di salute sono affrontate in numerosi documenti ufficiali sia dell’OMS (tra queste si veda la Guida per affrontare le disuguaglianze di salute del 2014) sia della UE (tra queste si veda Riduzione delle disuguaglianze sanitarie nell’Unione Europea, 2010). Più recentemente, in Italia il documento Le disuguaglianze sociali nella salute (CNEL, 2013), preliminare al citato Libro Bianco sulle disuguaglianze, ci ricorda in modo documentato che «i cittadini che presentano condizioni di svantaggio sociale tendono ad ammalarsi di più, a guarire di meno, a perdere autosufficienza, a essere meno soddisfatti della propria salute e a morire prima. Ma non sono solo i più sfortunati a stare peggio: mano a mano che si risale lungo la scala sociale questi stessi indicatori assumono gradualmente valori più favorevoli, secondo quella che viene chiamata la legge del gradiente sociale…». Per questo è naturale il sostegno espresso da CGIL, CISL e UIL al progetto della Conferenza delle Regioni “Equità della Salute e nella Sanità” e al relativo Libro bianco e per questo ritengono fondamentale agire sui determinanti sociali per tutelare la salute delle lavoratrici e dei lavoratori e, ovviamente, di tutti i cittadini. Peraltro, l’essenza della storia delle lotte sindacali e del movimento dei lavoratori – pur con limiti, sconfitte e contraddizioni – ci parla di un’azione per promuovere migliori condizioni di vita e di lavoro e quindi agire per questa specifica via per superare le disuguaglianze anche nella salute.

Rimuovere gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza, in questo caso nel diritto alla salute, è nella natura della CGIL e del sindacato confederale italiano. Sapendo che peggiori condizioni concernenti il lavoro a loro volta comportano maggiori rischi di salute. Proprio il Libro bianco sulle disuguaglianze ci ricorda che «[…] le famiglie e le persone con una bassa posizione sociale si muovono sul mercato del lavoro con difficoltà e si trovano in situazioni sistematicamente svantaggiate». E segnala le condizioni di maggiore rischio: «Essere disoccupati, avere carriere discendenti, discontinue, lavorare in modo precario e/o con un reddito inadeguato ad assicurare autonomia economica, lavorare in occupazioni manuali a bassa qualificazione, con eccesso di sforzo fisico e rischio di incidenti, lavorare in contesti organizzativi stressanti, con eccesso di sofferenza, disagio e demotivazione». Qui è evidente quanto possa e debba fare il sindacato – e positive relazioni industriali – per il miglioramento della qualità del lavoro e per l’empowerment delle persone, con la formazione innanzitutto.

L’azione del sindacato confederale può influire, sia a livello nazionale che territoriale e/o aziendale, su alcuni determinanti di salute fondamentali, che attengono alla sfera dei diritti nel lavoro e sociali. Non sempre sono azioni svolte con piena consapevolezza degli effetti sulla salute, ma molteplici sono gli strumenti dell’agire sindacale che agiscono sui fattori di salute e sulle relative disuguaglianze. Pensiamo ad esempio alla contrattazione collettiva nel lavoro (nazionale e decentrata o integrativa) che agisce a tutela del reddito da lavoro (salario) e da pensioni, e sulle condizioni e sulla qualità del lavoro; oppure alla contrattazione sociale sulle politiche fiscali, del lavoro e di welfare (per favorire la mobilità sociale e con specifiche azioni sulle politiche socio sanitarie e sulla contrattazione sul lavoro degli operatori in sanità).

E ancora: la funzione specifica svolta in materia di salute e sicurezza nel lavoro, rivolta soprattutto a rimuovere e a prevenire i fattori di rischio ambientale e quelli insiti nei processi produttivi; e infine le azioni di tutela individuale svolte dai patronati sindacali per le pensioni e gli infortuni nel lavoro, dagli uffici vertenze che intervengono su licenziamenti e discriminazioni, dai Caaf con l’assistenza fiscale, dai servizi per il lavoro rivolti ai disoccupati. Tutti servizi che, come è noto, sono rivolti sia a persone italiane che straniere (alle quali è anzi dedicata una funzione specifica dei patronati sindacali, proprio perché maggiormente esposti a discriminazioni e quindi a disuguaglianze).

Più in generale, il sindacato può promuovere salute e uguaglianza, favorendo la coesione sociale e la partecipazione dei lavoratori e dei pensionati alla vita del Paese, secondo il mandato Costituzionale. Naturalmente, se svolge con serietà e continuità la sua missione.

 

RDG: In Italia l’approccio EU Health in all policies – secondo cui tutte le politiche sociali (ed economiche) dovrebbero concorrere a migliorare l’equità nella salute e i decisori dovrebbero valutare ex ante l’impatto delle politiche sulla salute – stenta a decollare. A tuo parere, questo approccio sta entrando in sedi che potrebbero portare un contributo, come il Patto per la salute o il Piano prevenzione? E i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), come concorrono? Come si sta muovendo la CGIL?

SC: Ancora no, si cita la questione disuguaglianze in qualche documento. A oggi solo due atti ufficiali, il finanziamento vincolato agli obiettivi di Piano Sanitario Nazionale e il nuovo Piano Nazionale di Prevenzione trattano esplicitamente il tema. Ma manca una strategia esplicita per la salute in tutte le politiche, e una regia. La novità più interessante, ma ancora troppo recente e precaria, è rappresentata proprio dal citato documento della Conferenza delle Regioni. Lo stesso Patto per la Salute non tratta la questione, se non indirettamente, quando fissa il livello di finanziamento del SSN o annuncia nuovi criteri di riparto del finanziamento tra le Regioni. In particolare la revisione dei criteri di riparto potrebbe comportare, accanto agli attuali pesi di tipo demografico, l’introduzione di “pesi sociali”, che tengano conto anche della popolazione svantaggiata presente nelle singole regioni. Dove la popolazione con basso reddito e minore istruzione è maggiore si riceverebbero quote aggiuntive, da destinare proprio a colmare, almeno in parte, lo svantaggio in termini di salute e di accesso alle cure.

Per quanto ci riguarda, come CGIL abbiamo dedicato un capitolo della campagna nazionale “Salviamo la Salute” alla prevenzione negli ambienti di vita e di lavoro e alle disuguaglianze di salute. Ad esempio, abbiamo rivendicato che il finanziamento degli obiettivi di Piano sanitario nazionale sia finalizzato anche alla riduzione delle disuguaglianze di salute, valorizzando i piani e i progetti regionali che perseguono tale obiettivo. Lo stesso per il finanziamento del programma del Centro Controllo Malattie per quanto riguarda il monitoraggio delle disuguaglianze di salute.

Per quanto riguarda i LEA, la situazione è più complessa. Intanto non basta definire i LEA ma occorre assicurare l’accesso e la piena fruizione alle prestazioni su tutto il territorio nazionale e per tutti i cittadini. Questo oggi in Italia non è garantito, anche a causa dei ripetuti tagli alla sanità e al welfare. Ci sono enormi disuguaglianze nel rispetto dei LEA tra aree del Paese e tra gruppi sociali. Anche se non esiste un monitoraggio selettivo dei LEA, in grado di segnalare se e come sono garantiti per soggetti o gruppi di popolazione svantaggiata in termini di maggiori rischi e di accesso alle cure (salvo le esperienze come quella del Piemonte con l’attività del Centro studi Dors). Impossibile quindi costruire il conseguente piano di intervento. L’attuale griglia concordata tra Stato e Regioni per la valutazione sul rispetto dei LEA, che produce la classifica delle regioni italiane e i conseguenti premi e sanzioni (compresi i piani di rientro) non si occupa, se non indirettamente, di disuguaglianze nell’accesso ai LEA. Inoltre, la valutazione degli adempimenti regionali relativi ai LEA non pesa ancora quanto quella relativa ai bilanci economici, anche per stabilire premi e sanzioni alle Regioni.

Non bisogna dimenticare che anche le differenze di genere, se non riconosciute, possono creare disuguaglianze. In questo senso adottare politiche e interventi sociali e sanitari che tengano conto di queste differenze è essenziale.

Quanto previsto dalla nostra Costituzione sui LEA sanitari e sociali è ancora lontano dall’essere realizzato. Nel campo delle Politiche Sociali la situazione è ancora più grave, addirittura non sono ancora stati definiti i LIVEAS, vale a dire i Livelli Essenziali di Assistenza Sociale. È stupefacente se si pensa che sono i determinanti sociali la causa delle disuguaglianze di salute. La definizione dei LEA, o meglio l’aggiornamento per quelli sanitari e la creazione ex novo per quelli sociali, e soprattutto il loro rispetto è dunque una delle condizioni minime per organizzare gli interventi diretti e indiretti sulle disuguaglianze sanitarie e di salute.

 

RDG: Uno dei determinanti cruciali dell’equità è l’accesso al sistema sanitario, alle cure, le politiche basate sull’equità stanno rivalutando un approccio universalistico (anche in controtendenza). Molti recenti monitoraggi, di contro, denunciano la minor accessibilità alle cure, i maggiori costi, il crescente numero di cittadini che vi rinunciano per problemi di sostenibilità economica. Condividi questo allarme? E non c’è il rischio – penso soprattutto alle conclusioni del Rapporto Censis-Rbm – che, partendo comunque da un dato di realtà, tutto questo porti acqua al mulino di una più accentuata privatizzazione della sanità, grazie a un SSN meno efficiente e meno finanziato?

SC: Il diritto alla tutela della salute e all’assistenza sociale (si pensi alle persone non autosufficienti, ai minori, alla povertà, ai migranti), non è garantito in tutto il Paese soprattutto in alcune regioni. È vero, molte persone rinunciano a curarsi per motivi economici, anche per il continuo aumento dei ticket. Altre si rivolgono al privato o “emigrano” in altre regioni.

Il diritto alla salute può essere salvato – e restituito ai cittadini – se si cambiano le politiche di austerity che hanno segnato, in questa lunga crisi, le scelte di politica economica e sociale in Europa e in Italia, alimentando malessere, esclusioni sociali e maggiori disuguaglianze. Il sistema di welfare pubblico e universale, per quanto limitato e imperfetto, si è dimostrato un indubbio vantaggio per tutti. Invece, nei Paesi dove i bisogni sociali sono stati affidati prevalentemente alle risposte di mercato, gli effetti in termini di disuguaglianze – e di maggiori costi generati dalla spinta al consumo – sono ormai noti come fallimentari.

In Italia la spesa, sia pro capite che in rapporto al PIL, per la protezione sociale (sanità e assistenza sociale) è più bassa della media UE a 15. Priorità assoluta è ristabilire in tutto il Paese il diritto universale alla tutela della salute e a cure di qualità, mettendo in sicurezza il Servizio Sanitario Nazionale, minacciato dai ticket e dai tagli lineari di questi anni (più di trenta miliardi). Indebolire ancora il welfare e nello specifico il SSN universale significa aggravare le condizioni dei cittadini soprattutto in termini di disuguaglianze. Invece il welfare sociale e sanitario – pubblico e universale – è un grande investimento che risponde ai bisogni di salute, di cure e di protezione sociale considerandoli diritti, ed è un formidabile motore che alimenta sviluppo economico e occupazione. Naturalmente bisogna farlo funzionare bene. Sprechi e corruzione sono fattori anch’essi di disuguaglianza.

Anche il cosiddetto welfare contrattuale può essere utile per offrire copertura ad alcuni gruppi di lavoratori, recuperando svantaggi e riducendo rischi di esclusione. Ma sappiamo che lascia senza tutele proprio le persone e i gruppi sociali più svantaggiati e a rischio (disoccupati, precari, anziani). Per questo bisogna regolamentarlo e orientarlo meglio, in modo che sostenga la funzione universale del welfare socio sanitario pubblico nel garantire il diritto alla salute e alle cure per tutti. La spesa socio sanitaria privata a carico delle famiglie è enorme, solo per la sanità supera i 30 miliardi. Una grande parte di questa non è scelta ma subita, si pensi all’assistenza per le cure a lungo termine o all’odontoiatria. La prima cosa da fare è ovviamente finanziare e rafforzare il welfare pubblico e universale. E dunque, per quanto ci riguarda, il problema non è costruire un pilastro privato che affianchi “il SSN in ritirata”, quanto piuttosto orientare più equamente e a fini collettivi – e verso consumi socio sanitari più sicuri e appropriati – una parte di quella spesa privata che oggi in perfetta solitudine e senza alcuna “consulenza no profit” troppi cittadini si trovano a dover affrontare. A questo possono servire i fondi del welfare contrattuale.

 

RDG: A livello globale ed europeo, i lavoratori della sanità sono tra i primi protagonisti della lotta per la tenuta del sistema sanitario pubblico, anche come garanzia di un accesso universalistico (penso ai lavoratori del NHS inglese, per esempio). Puoi ricordare le più recenti iniziative sindacali in Italia, su questo terreno? E le scadenza più prossime?

SC: Stiamo preparando la nuova vertenza sul diritto alla salute, che avrà inizio con la prossima discussione sulla Legge di stabilità, decisiva per le sorti del sistema sanitario e sociale del nostro Paese. Potrebbe avere le forme di una grande consultazione pubblica per il rilancio del SSN, a partire dal lavoro. Ancora una volta si tratta di rendere esplicito il rapporto strettissimo che esiste tra la qualità del lavoro e quella dei servizi per i cittadini. Questa vuole essere la cifra che distingue la CGIL quando contratta e rappresenta i lavoratori dei servizi sociali e sanitari, e in generale che svolgono una “funzione pubblica”.

Per questo con il sindacato del settore, proponiamo un Piano per il lavoro nel welfare sociosanitario: stop ai tagli lineari, rinnovo dei contratti e diritto a contrattare, sblocco del turn-over per garantire i LEA, stabilizzazione dei precari. E poi precise misure a garanzia dell’occupazione, con progetti di reinserimento dei lavoratori. Infine, la proposta di un accordo quadro nei settori socio sanitari e socio assistenziali per regole essenziali e universali e clausole di salvaguardia per appalti e convenzioni. Per qualificare così un lavoro troppo spesso “povero” e precario, riconoscendo diritti e professionalità (compreso il lavoro di cura delle assistenti familiari, che sono oltre un milione!) a chi si occupa di servizi delicatissimi per la vita delle persone.

La nuova vertenza Salute vedrà protagonisti in particolare i lavoratori del settore, ed è un’evoluzione della recente campagna “Salviamo la salute” promossa dalla CGIL, che si è svolta da settembre 2014 ai primi mesi del 2016, attraversando l’Italia con oltre quattrocento tappe, che hanno mobilitato migliaia di lavoratori e di cittadini. L’idea guida è che il welfare sia una scelta strategica per garantire uguaglianza nei diritti e per la ripresa economica e sociale. E che il sindacato possa e debba giocare un ruolo decisivo con la contrattazione sociale e nei luoghi di lavoro del welfare sociale e sanitario.

Infine, tra le tante iniziative di mobilitazione che hanno esplicitamente tenuto insieme diritti dei lavoratori e dei cittadini utenti, vogliamo ricordarne due emblematiche: “GiustOrario” – sul rispetto delle pause e dell’orario di lavoro degli operatori sanitari che ha visto l’Italia sanzionata dall’UE – e “Manifesto per la buona sanità”, organizzata tra gli altri dal nostro sindacato FP-CGIL medici.

Ma certo ancora molto c’è da fare per rendere coerente e costante l’azione quotidiana del sindacato con le intenzioni e soprattutto per ottenere i risultati desiderati.

 

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Stefano Cecconi: è responsabile nazionale delle politiche della salute e della contrattazione sociale per il Dipartimento Welfare della CGIL. È stato segretario generale della Camera del Lavoro provinciale di Padova e poi segretario regionale confederale CGIL Veneto. Ha svolto in passato attività di formatore presso la Scuola per infermieri professionali e assistenti sanitari dell’Unità Sanitaria Locale di Padova.

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