Informazione e Web, un dibattito che puzza di censura

Informazione e Web, un dibattito che puzza di censura

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Certamente la casistica delle «bufale» è odiosa, ma guai a pensare che reiterando leggi o regolamenti si possa incidere su un fenomeno attinente agli strati profondi della cultura di massa

Pessima l’uscita di Grillo sui media e sulla «giuria popolare». È un tema troppo delicato per affrontarlo mischiando l’argomentazione politica con l’urlo beffardo del comico.

Tuttavia, è persino peggiore il panorama artificioso e desolante del coro delle invettive.

Invettive spesso pronunciate da chi i media li controlla sul serio. O ci prova. La sgradevole uscita di Grillo ha distolto, poi, l’attenzione dalla chiacchiera ossessiva degli ultimi giorni: il perfido Web.

Sarebbe cosa buona e giusta stabilire una moratoria: non si usino per un po’ parole come «post-verità» e «populismo», perché sono state già sfiancate da un utilizzo eclettico, contraddittorio e debordante. Sotto simile copertura semantica si cela il demone della censura.

Al di là delle intenzioni, le ricorrenti proposte di mettere le braghe al mondo della rete sfociano in inevitabili conseguenze autoritarie.

La rischiosa proposta del presidente dell’Antitrust Pitruzzella di dare vita a «istituzioni specializzate» – i giudici non bastano? – per intervenire sulle fake news (altro tormentone) o la tentazione di equiparare gli Over The Top come Facebook alla responsabilità editoriale (accarezzata dal ministro Orlando?) portano dritti all’intervento di regime.

Di autorità ne abbiamo già numerose e non si capisce, tra l’altro, perché tra tutte l’unica ad averne titolo sia rimasta in silenzio. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Non solo. Su tali argomenti la discussione è antica e ha indicato da tempo possibili vie, né occhiute né lassiste.

Si tratta delle strade indicate dalle riunioni annuali dell’Internet Governance Forum (Igf) lanciato nel 2005 a Tunisi dal World Summit sulla società dell’informazione (Wsis), organismo delle Nazioni Unite. La delegazione italiana, di cui faceva parte chi scrive insieme all’attuale presidente del consiglio Gentiloni, scartò ogni ipotesi di sapore burocratico e condusse con successo la battaglia per regole leggere, con la definizione di una Carta dei diritti e dei doveri specifica per la rete.

Tant’è che l’anno successivo ad Atene tenne la sua prima riunione l’Igf e il coordinamento della materia fu affidato a Stefano Rodotà. Quest’ultimo ha animato la commissione promossa dalla Camera, da cui è scaturita la Dichiarazione approvata a Montecitorio nel 2015.

E, poi, ci sono la Carta di Roma e diversi ulteriori documenti ad interpellarci sulle opportunità ma pure sugli obblighi civici della cittadinanza digitale.

Certamente, la casistica odiosa delle «bufale» è differente, ma guai a pensare che reiterando leggi o regolamenti si possa incidere su un fenomeno attinente agli strati profondi della cultura di massa.

C’è da chiarirsi.

L’evocazione di norme e sistemi di sorveglianza ad hoc è un riflesso condizionato tipico di chi è nato e cresciuto nell’ambiente analogico. Il diritto ha bisogno di una rifondazione capace di interagire con la metrica digitale. Continuare con i toni minacciosi appare una versione grottesca delle grida manzoniane.

Arrendersi alla non verità? Mai, come non ci si è arresi alla pratica costante della manipolazione, che percentualmente è assai maggiore nei vecchi media rispetto ai nuovi. Ora, è doveroso rimettere al centro dell’attenzione la rete, visto che è la componente preponderante dell’informazione.

Non a caso Renzi indicò nella debolezza della presenza nei social una delle cause principali della sconfitta del Sì referendario.

Sono giuste e interessanti le proposte di Enrico Mentana di impedire l’anonimato, sono utilissimi gli spunti di uno dei più brillanti blogger come Alessandro Gilioli. Come ha sottolineato con tenacia Michele Mezza, il nodo sta nella sintassi del Web, retto da algoritmi proprietari su cui nessuno è in grado di mettere becco. Algoritmi centrati sulla difesa della «roba» – come il copyright – piuttosto che sui diritti degli utenti: persone e non corpi da click, interlocutori e non schiavi felici per l’ingrassamento dei potenti del capitalismo cognitivo.

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p.s. Grillo sovente lancia strali contro qualsiasi tipo di sovvenzione pubblica all’informazione, anche per le testate sospinte ai margini dal mercato. Il libro «Digital Disconnect» dell’economista Robert McChesney chiarisce, in realtà, quanto sia stretta la corrispondenza tra forme di sostegno non assistenziali e libertà di stampa.

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