L’ultimo discorso di Barack Obama

L’ultimo discorso di Barack Obama

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L’ultimo discorso – così vuole la consuetudine – il presidente che lascia la Casa Bianca a fine mandato lo pronuncia nella capitale federale. Ma quello della notte scorsa non è stato, appunto l’ultimo discorso di Barack Obama. Non è stato l’addio. Anche per questo ha scelto Chicago. Il cuore della metropoli, il McCormick Place, di fronte a quindicimila persone.

Per parlare da lì a tutti gli americani, nelle vesti di presidente uscente, certo, ma non per questo di leader politico che esce dalla scena, sulla quale invece resterà e continuerà a essere protagonista. Un discorso, il suo, rivolto pertanto al futuro, in difesa della democrazia, un’esortazione soprattutto ai giovani, all’azione, all’impegno, alla rivendicazione dei risultati della sua presidenza, parziali, inadeguati, insoddisfacenti quanto si vuole, ma che oggi possono apparire conquiste formidabili ma pericolosamente effimere, e perciò da rilanciare e difendere, specie se la nuova amministrazione che entra in carica cercherà di eliminarli come promesso.

Chicago, dunque. Che è la sua città. La città che ospiterà la sua fondazione presidenziale. Ma anche la città che nell’immaginario americano è sinonimo di politica, la politica dura e verace che può sconfinare nel clientelismo e nella corruzione, ma che è anche campo d’azione di leader come Jesse Jackson, Harold Washington e di attivisti entusiasti come fu il giovane Barack, che scelse di restare nella «città ventosa» come social organizer negli slum degradati, rinunciando a lauti compensi da avvocato di grido con dottorato a Harvard.
C’è molta simbologia in questo luogo, scelto come approdo dell’esperienza presidenziale di Obama che cominciò qui e che ora diventa il punto di un nuovo inizio.

Ci saranno altri discorsi, dunque. Anche lautamente pagati, come ex-presidente, per giunta una rockstar della politica. Perfino George W. Bush è un ambito conferenziere da centomila e più dollari a conferenza. Obama avrà di sicuro una vita molto agiata, da ex, con conferenze, interventi, consulenze. Lo sentiremo ancora, ma probabilmente anche nelle vesti di oratore politico da comizio non solo di fronte a élite pronte ad aprire il portafoglio. All’inizio non sarà direttamente coinvolto nel conflitto incandescente che s’innescherà tra il nuovo presidente e i democratici ma inevitabilmente finirà prima o poi per essere tirato in ballo nell’inedita figura, per un ex presidente, di capo dell’opposizione. Specie quando Donald Trump e i suoi ministri passeranno dalle minacce ai fatti nell’opera di demolizione dell’edificio obamiano.

Anche da ex-presidente – e nelle sue nuove vesti di leader politico sui generis – Barack Obama continuerà dunque a essere protagonista. Con la sua arma preferita: l’oratoria. Obama è consapevole di questo suo talento. Innato e coltivato. Dell’oratoria dei leader neri ha poco, anche se quella “scuola” è presente nel suo stile, ma è solo accennata e sempre molto sorvegliata. La voce baritonale, il linguaggio del corpo, il ritmo. E le pause sapienti. I sorrisi e il gioco degli sguardi. Toni e pose che possono anche ricordare i maestri dell’oratoria, per lo più pastori e leader religiosi, come Martin Luther King. Ma in Obama c’è sempre la preoccupazione che il registro del pastore tocchi più il cuore che la mente. In lui prevale l’assillo continuo di spiegare, secondo un andamento più logico che emozionale. Sembra che l’ambizione massima di Obama, nei suoi discorsi, sia quella di entrare in sintonia con l’uditorio, anche emotivamente, più con il rigore dell’argomentazione e del ragionamento che con la retorica e l’incantamento delle frasi a effetto. Obama ha accompagnato tutta la sua azione di governo con discorsi che via via spiegavano il senso delle sue decisioni e delle sue scelte. Nei suoi otto anni alla Casa Bianca si contano più discorsi, interviste, conferenze stampa di tutti i suoi predecessori messi insieme. Neppure a metà mandato un giornalista della Cbs, Mark Knoller, ne aveva contati 1.852. Molti dei quali memorabili. Da ogni punto di vista. Specie poi se messi a confronto con la comunicazione del successore, con i suoi tweet e il suo vocabolario ridotto a un paio aggettivi ossessivamente ripetuti come “terrific” e “great”.

È un professore, Barack Obama, un bravo professore, che a volte può anche risultare pedante. Perfino freddo. Gli è stata rimprovera un’altezzosità, una distanza aristocratica che ha fatto addirittura pensare che la politica non gli piaccia. In un’intervista a 60 Minutes, Bob Schieffer gliel’ha detto in modo molto franco: «Tutti i presidenti, nella storia moderna, che in modi diversi hanno avuto successo – Johnson, Franklin Roosevelt, Ronald Reagan, Teddy Roosevelt, Bill Clinton – davano l’impressione di provare gusto, a far politica. Gli piaceva il dai-e-prendi, il braccio di ferro, il gioco della seduzione. In lei non avverto lo stesso feeling, il che mi porta a chiedere: le piacciono i politici, le piace la politica?». Ma un tipo che si chiama Barack Obama, e Hussein di secondo nome, sarebbe mai arrivato dov’è arrivato – nello studio ovale dove si svolgeva l’intervista – se non avesse mangiato pane e politica, pur non essendo nato nella politica e non essendo stato incoraggiato a far politica?

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