Aleppo riprende a sperare
ALEPPO.«L’ospedale dove ero con i miei due bambini è stato attaccato quattro volte in tre giorni. Ci hanno fatto uscire dall’edificio perché era vicino al fronte di battaglia». Ci arriva da lontano il racconto dalla delicata voce di Jamilaa. Esce dalla cucina e porta con sé una piccola teiera rossa, in quella sua casa attorniata da cadaveri di case.
«Come riescano a rimanere in piedi sventrate rimane un mistero. In molte mancano porte e finestre». Alla nostra domanda sulle responsabilità di quei bombardamenti, lei risponde: «I nostri uomini sono i responsabili, che siano parte dell’esercito governativo o dell’opposizione. Gente che abitava queste case, gente che veniva curata in questi ospedali, gente che mandava i figli in queste scuole».
Rientrare con lei e la sua famiglia in quelle stanze, seppur profondamente ferite, riempie di gioia l’atmosfera ancora natalizia. Si, perché è stato Natale anche ad Aleppo per i 35mila cristiani rimasti, nel quartiere di Aziziyeh. Jamilaa ci racconta che conserva la carne sotto il sale perché l’elettricità non è sufficiente per il frigorifero. «Me l’aveva insegnato mia nonna quando ero piccola, non pensavo mi sarebbe mai potuto servire».
Dentro casa più o meno la temperatura è la stessa di quella fuori. C’è solo una piccola stufa elettrica che rimane accesa per qualche ora al giorno. C’è un caminetto ma non c’è legna da ardere.
I discorsi nelle strade di Aleppo sono velati di speranza. Speranza di tornare ad una vita normale. Per la prima volta dal 2012, le forze governative controllano l’intera Aleppo. Per la prima volta da allora, il conflitto non infuria.«Le notti sono silenziose. La mattina non ci svegliamo con il rumore assordante dei caccia», continua il marito di Jamilaa.
Per la prima volta si parla di ricostruzione. È iniziata sotto il freddo pungente una febbrile rimozione di macerie e detriti dalle strade principali. Tanta gente torna per vedere i propri negozi, le proprie case, per vedere se gli edifici sono in piedi. Nonostante l’enorme trauma e le ferite ancora aperte, tanta gente torna per restare.
Le priorità ora sono quelle del riscaldamento e dell’alimentazione. Le Nazioni Unite, entrate nella città, continuano a distribuire stuoie, coperte, vestiti, teli di plastica, per affrontare il continentale rigido inverno siriano. Le associazioni umanitarie assistono circa 20mila civili ad Aleppo Est, con pasti caldi due volte al giorno e acqua potabile. Più di un milione di persone hanno accesso di nuovo all’acqua pulita in bottiglia o tramite pozzi.
Le vie centrali di Aleppo sono oggi riempite da militari dell’esercito governativo con al seguito armi da fuoco, dalle bandiere siriane, dalla gente rimasta che cerca di comprare qualcosa da mangiare nei mercati ancora semivuoti. Ci sono teli colorati e bancarelle nella zona del mercato dell’antica città di Aleppo. Sono disposti in modo ordinato vicino l’al-Madina souq, il medievale mercato coperto, disegnato sulle mura della città, in gran parte distrutto da una guerra spietata, nonostante la protezione da parte dell’Unesco.
È difficile da immaginare ora quel fiorente mercato che anni fa era il centro economico della città. Il grado di distruzione è estremamente grave. Le cicatrici profonde. I pezzi di storia perduti lacerano le memorie degli anziani. Le enormi quantità di macerie rendono irriconoscibili i luoghi, i passaggi, le strade, perfino per chi ha abitato la città per anni.
Non restano che crateri, rovine e sbiaditi ricordi di centinaia di negozi di sapone, spezie, seta, lana, rame, oro e prodotti della ricca agricoltura siriana. Molti venditori non possono offrire nulla se non qualche verdura, coltivata in cassette di legno davanti le proprie case. Spinaci e ravanelli sono i più facili da trovare. Il resto delle bancarelle rimane vuoto.
Servizi di Primary Health Care sono disponibili attraverso sette cliniche mobili e 12 team mobili, per la distribuzione di medicine, materiali sanitari e chirurgici, per il trattamento dei traumi, e latte per neonati. 8.836 visite: questi i numeri dall’inizio delle evacuazioni.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità e i partner del settore sanitario forniscono assistenza a 11 strutture sanitarie pubbliche coprendo un bacino di 60mila persone. Più di 10mila bambini sono stati vaccinati contro la poliomielite; 1.381 malati sono stati trasportati nei più attrezzati ospedali della parte occidentale della città.
Anche se non c’è nessun combattimento, qualche famiglia continua ad uscire dall’Aleppo orientale, dopo approfonditi controlli, attraverso il Ramouseh checkpoint a est della città. Lo stesso da cui sono transitati i feriti nei corridoi umanitari allestiti dalla Croce Rossa Internazionale.
Sono 116mila le persone che hanno lasciato la città dal giorno del cessate il fuoco, mediato da Russia e Turchia. Di questi, 80mila sono sfollati interni ad Aleppo ovest e 36mila hanno raggiunto Idlib. E negli ultimi giorni circa 2.200 famiglie hanno fatto ritorno nel quartiere Massaken Hanano. Sono rimasti in tutta la città circa un milione e mezzo di civili, contro i quattro milioni che si contavano prima dei combattimenti.
Ma sono tornati nelle strade i bambini. E i bambini sono lo specchio di come vanno le cose. Giocano al freddo e sperano nella scuola. Alcuni di loro non entrano in un’aula da cinque anni. Sono entusiasti di sfogliare di nuovo un libro, di fare il dettato in classe, di tornare a casa per fare i compiti invece di essere costretti ad ascoltare i rumori della guerra.
E, allora, chi ha vinto una guerra che ha provocato la perdita di oltre 500mila vite, costretto milioni di persone ad abbandonare le proprie case e scatenato onde di profughi in stati confinanti?
Le tracce di combattimenti sono quasi ovunque. Bossoli, proiettili, vestiti e documenti di soldati uccisi, sacchi di sabbia e teli, verosimilmente tane dei cecchini, pitturano le strade di una Aleppo senza forze. Un campo di battaglia che non ha risparmiato scuole e ospedali. Circondato dalla morte. Ancora traboccante di vittime di guerra. Pericolosamente a corto di provviste, con grave mancanza di acqua pulita e elettricità. Segnato da colpi di mortaio. Ma con di nuovo la possibilità di censire le nascite e permettere ai bambini di essere registrati come siriani. È questo oggi l’al-Bayan hospital nel quartiere di al-Sha’ar, Aleppo Est. Qui si lavora ininterrottamente.
Mezzanotte ad Aleppo significa luci spente. I pochi generatori di corrente rimasti si fermano, gettando interi quartieri nel buio. E l’ospedale non è un’eccezione. I macchinari elettrici iniziano a funzionare con i comandi manuali grazie anche all’aiuto della gente comune. C’è acqua pulita per poche ore al giorno. Ci spiegano che la maggior parte dell’acqua che arriva ad Aleppo proviene dalla diga sull’Eufrate, nell’adiacente provincia di al-Raqqa, roccaforte Isis. Ad Aleppo arriva acqua per il 20% del suo fabbisogno.
M10 è stato il nome di battaglia dell’al-Sakhour hospital, nel quartiere omonimo, un ospedale nell’Aleppo orientale, diventato sotterraneo negli ultimi mesi di combattimenti. «L’inferno ha visitato l’M10 ogni giorno – ci racconta Hayyan, volontario della Mezzaluna Rossa Siriana – Pazienti dissanguati sui pavimenti, sale operatorie sovraffollate, medici e infermieri costretti a decidere chi avrebbe potuto vivere e chi sarebbe dovuto morire».
L’ospedale è stato bombardato almeno tredici volte fino a quando è stato gravemente danneggiato nel mese di ottobre.
Oggi come molti ospedali, l’M10 è stato sostituito da edifici identificati da una mezzaluna rossa. Nelle strade del centro storico, al disegno della mezzaluna rossa si associano lunghe file di attesa. File che hanno l’aspetto di un timido ritorno alla normalità.
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