Almaviva: 1600 licenziati. “La sinistra qui ci ha preso a calci”

Almaviva: 1600 licenziati. “La sinistra qui ci ha preso a calci”

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Ramona era piena di vita, giovane e appassionata. Padre operaio, madre casalinga, radici salde, popolari. Voglia di crescere, di migliorare, tante piazze dove urlare, assieme agli altri: «Ci siamo anche noi con i nostri diritti, lavoro, welfare, famiglia!». Quella Ramona di vent’anni fa non c’è più: «Ho 38 anni, una grande rabbia dentro, niente e nessuno cui credere, ho maturato una completa sfiducia nella politica».

Ramona Calvino è una delle 1666 licenziate da Almaviva a Roma, lavoratrice di call center. Ha trovato nella posta la lettera di congedo. Era il 30 dicembre scorso, i più si accingevano a mangiare cotechino e lenticchie. La storia di Almaviva è nota. L’azienda in difficoltà pone condizioni capestro e minaccia licenziamenti, scatta la corsa contro il tempo, si va al tavolo con il governo nella persona del viceministro per lo Sviluppo Economico Teresa Bellanova. Il 22 dicembre 2016 i delegati aziendali del call center di Napoli patteggiano rassegnati tre mesi di cassa integrazione, prendiamo questo, poi si vedrà. Le Rsu di Roma, invece, bocciano quell’accordo, che definiscono «estorsivo», con gran disagio del Mise e dei sindacati nazionali. Partono i licenziamenti a Roma ma anche un referendum tra i lavoratori che, smentendo a stretta maggioranza i propri rappresentanti interni, dicono sì all’accordo. Ma è troppo tardi: Almaviva, felicemente delocalizzata in Romania, non torna indietro.
La sede del call center è deserta, un luogo morto. E un grande vuoto alberga anche in Ramona: «Mi sento tradita». Tradimento, disillusione: ecco due parole chiave nella comunità dolente dei licenziati Almaviva. Due parole che rivelano il tanto evocato distacco tra la gente e le istituzioni. Un migliaio di persone – e le loro famiglie che non credono più alla politica, alle promesse del governo («Questo governo di sinistra mi ha dato un calcio nel sedere dice Ramona – In Almaviva ero team leader e con il Jobs Act sono stata anche demansionata prima di essere licenziata»), che non si fidano più del ruolo di intermediazione del livello sindacale alto. Nessuno crede a nessuno, una matrioska di sfiducia che colpisce soprattutto i partiti della sinistra, il Pd al timone dell’Italia, e spiega anche, in parte, i risultati del referendum sulle riforme. Il sociologo De Rita evoca «il cortocircuito della rappresentanza». Luigi Di Maio, meno raffinato, riassume così, a proposito di Almaviva: «L’epoca della rappresentanza è finita. Ognuno si metta l’elmetto e inizi a rappresentare se stesso».
Che cosa credono, che cosa vogliono le dipendenti Almaviva di Roma (oltre il 78 per cento donne)? Giuliana Graccione è disarmante: «Vorrei che la sinistra capisse veramente cosa passiamo noi lavoratori, le rinunce che facciamo per sopravvivere. Ho 51 anni e due figli, vorrei lavoro e non ammortizzatori sociali. Vorrei che i ministri dei governi Renzi e Gentiloni sapessero quanto costa un litro di latte». Anche lei figlia di operaio, voto a sinistra. E alle prossime elezioni? «Alle prossime elezioni non voglio dare un voto di pancia, né uno ideologico. Certo, il voto in automatico non lo dò più. Sento la sinistra lontana dai nostri problemi, vedo franare quei diritti minimi acquisiti per i quali mio padre, emigrato in Francia, aveva combattuto». Curiosità: Giuliana, al referendum sulle riforme, ha votato sì. «Non ho voluto cadere nella trappola del pro o contro Renzi ».
Amarezza, diffidenza. Monia Fuoco, 43 anni, amica di Giuliana, team leader di Almaviva, formatore degli operatori call center per la pubblica amministrazione, integra e rilancia: «Mi sembra che nessun partito senta la nostra voce. Con alcuni colleghi stiamo pensando di presentarci alle prossime elezioni comunali con delle liste civiche… ». Ognuno con il suo elmetto. La sinistra governativa? Monia è tranchant: «Una sinistra che non difende il diritto al lavoro non è una vera sinistra».
In Almaviva ce l’hanno con la sindaca Raggi che, fino all’Epifania, «non si era mai filata nessuno di noi», con Zingaretti e la Regione (il governatore però ieri ha aperto un tavolo e giura: «Non lasceremo soli questi lavoratori, cercheremo di dare loro opportunità di reinserimento »), con Di Battista, detto Diba, «giovane e brillante ma è venuto davanti alla nostra sede e non sapeva una mazza della nostra trattativa».
Un rifiuto emotivo ma solido, un disincanto totale. Monia pensa a suo figlio che ha 7 anni: «Non so se questo Paese può dargli un futuro, ho dei parenti in Canada, devo riflettere. Qui non c’è welfare, non c’è nulla».
All’establishment istituzionale manca anche e soprattutto il «cuore», dice Marzia Dimitri, da 16 anni in Almaviva, responsabile del call center in quota Inps, stessa scuola di Ascanio Celestini, «lui terza liceo, io quarta ginnasio», una laurea in sociologia, un marito falegname. Il cuore dunque: «Non mi aspetto che ce l’abbia un imprenditore ma il governo e i sindacati sì». Bertinottiana in origine, delusa dalla «scarsa lungimiranza sindacale», Marzia ha votato per la Raggi («Le concedo ancora il beneficio del dubbio») e ha detto sì al tardivo referendum sull’accordo. Il suo è un identikit multiplo che certifica lo scollamento dal mondo iniziale: «I 1700 dipendenti di Almaviva sono stati immolati, io sono stata immolata. Non credo più, non mi fido più». Barbara Sbardella (Rsu Cgil), altra licenziata di fine anno, ha pianto lacrime di rabbia nella notte del fallimento: «Ho visto crollare in Almaviva anni di battaglie sui diritti. Ho due figli di 8 e 5 anni. Il futuro lo vedo nero ma non mollo. Da un partito di sinistra mi aspetto che capisca che non si può vivere con meno di 600 euro al mese».

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