Violenza contro le donne. Perché è giusto mostrare il volto degli aggressori

Violenza contro le donne. Perché è giusto mostrare il volto degli aggressori

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Novantasette su cento delle ragazze giovani e carine che vengono assassinate finiscono dritte dritte, con le loro foto, sulle prime pagine. Non è una cifra: è un faro acceso sul femminicidio. E la società in cui viviamo. Lo dice il confronto con la presenza sui giornali, sul web, sui tiggì di altre donne ammazzate dal marito, dall’ex di turno, dal compagno o dallo spasimante. Stessi omicidi, stessa ferocia, stesse pistole, stessa benzina, stessi coltelli… Ma più anni hanno, quelle donne, meno interessano… Fiori appassiti. Certo, è normale che un fiore reciso nel momento in cui sboccia e s’illumina colpisca di più. Si pensi alle parole di «Marinella» dove Fabrizio de Andrè racconta, pare, la storia di Maria Boccuzzi, uccisa a colpi di pistola nel gennaio 1953 e poi gettata nel fiume Olona da un «lui» che aveva seguito «senza una ragione / come un ragazzo segue un aquilone». Ma l’inchiesta condotta da Emanuela Valente sui casi delle 571 donne assassinate negli ultimi dieci anni per motivi di gelosia e possesso, le ultime due nelle ultime ore a Milano e a Santa Maria di Capua Vetere, sta alla larga dalla poesia.

Fatti, numeri, riferimenti, verbali di polizia e dei carabinieri, sentenze della magistratura. Il quadro che ne esce, come dicevamo, spiega molto di come vengono vissuti questi fatti. Sui quali la Valente creò nel 2013 la prima banca dati (inquantodonna.it) a costo di tirarsi addosso le ire di maschi inveleniti al punto di scrivere sui social network cose orrende tipo «purtroppo tra le ammazzate non c’è ancora la Valente, ma speriamo che presto il vuoto venga colmato». Con tanto di indirizzo, via e numero civico. Spiega la blogger, da anni impegnata ad approfondire il fenomeno, che «le foto delle donne assassinate sono pubblicate in media nell’80% dei casi, anche quando si tratta di foto che le ritraggono ormai cadaveri, gettate in un campo o a pezzi». Ma mentre quelle delle uccise tra i 14 e i 35 anni «sono pubblicate nel 97% dei casi» e «vengono spesso scelte le immagini in costume da bagno, in pose avvenenti o con abiti attillati», la quota cala bruscamente al 74% se le vittime di anni ne hanno più di 36 e precipita al 39% se ne hanno più di 65. Diciamolo: è una scelta condivisa salvo eccezioni, tra mille contraddizioni, da un po’ tutti i mass media. Scelta sulla quale anche «La ventisettesima ora», il blog al femminile del Corriere, ha discusso più volte. Chi è senza peccato… Emanuela Valente, però, aggiunge un dato nuovo. O meglio: un dato mai sottolineato.

 Fatti i conti, «le foto degli uomini che hanno ucciso sono state pubblicate nel 59% dei casi totali» e «quasi mai prima del 2012». Certo, negli ultimi anni, con una inversione di tendenza crescente, molto è cambiato. Anzi, negli ultimi mesi, per quanto le immagini sia a volte poco riconoscibili (foto in lontananza, in auto, di spalle, il volto semi-coperto») c’è stata un’accelerazione: 92%. Positiva. Prima del 2010, l’uomo veniva addirittura, troppo spesso, «reso irriconoscibile con le fascette sugli occhi anche quando si trattava di un reo confesso o di un recidivo/seriale». Al punto che ancora oggi non sono pubbliche diverse «foto di uomini definiti socialmente pericolosi o recidivi». Cosa che riduce se non annulla quella «sanzione sociale» che aiuterebbe a isolare sempre più i violenti, gli stalker, i persecutori… O addirittura i recidivi se è vero, come provano le inchieste, che non di rado chi ossessiona, ferisce o addirittura massacra una donna di cui ritiene di essere il proprietario lo ha già fatto con altre.

Di più: tra le parole più usate nelle cronache, «solo nel 18% degli articoli si parla di “assassini” (generalmente nelle interviste a parenti e amici della vittima), in meno dell’8% di “criminali”». Al contrario, «nell’83% dei casi gli uomini vengono descritti come persone tranquille, educate, gentili, che salutavano sempre, insospettabili, dediti al lavoro, ai figli, alla famiglia». Brava gente che, così assicura nel 64% delle occasioni, è stata colta da un improvviso raptus senza alcuna premeditazione. Come il primario Roberto Colombo che ha spaccato la testa all’ex moglie «incontrata per caso» con un mattarello che «casualmente» portava addosso. Lo stesso vale per la descrizione della coppia. Salvo il 10% di testimonianze, «nei primi momenti dopo l’uccisione vengono sempre raccolte notizie di due persone tranquille, senza problemi, famiglia perfetta, si amavano tanto e non litigavano mai…»

Solo «nei giorni successivi i vicini iniziano a ricordare urla ricorrenti e rumori di oggetti rotti provenienti dall’appartamento, mentre amici e parenti iniziano a ricordare confidenze e preoccupazioni della donna…». Il tutto nonostante «il 40% delle vittime» avesse denunciato i futuri carnefici «anche più volte». Come Marianna Manduca, la trentaduenne di Palagonia, in provincia di Catania, che nel 2007 fu ammazzata da Saverio Nolfo con dodici coltellate. Dodici come le denunce per aggressione, minacce, violenze che la moglie aveva fatto contro di lui per proteggere non solo se stessa ma i tre figlioletti. Denunce colpevolmente sottovalutate anche secondo la Cassazione, che un paio d’anni fa ha riconosciuto che investigatori e magistrati, informati dei rischi, erano stati negligenti e dovevano risarcire i bambini rimasti orfani. A proposito di Nolfo: la foto? Mai vista. Come se il criminale avesse diritto alla privacy.

Tra gli altri numeri dell’inchiesta, come la percentuale bassissima di assassini mandati all’ergastolo (solo il 4%) o quella altissima di riduzioni di pena col risultato che «tra sconti, indulto e buona condotta spesso gli uomini condannati per femminicidio escono dopo meno di 10 anni», Emanuela Valente sottolinea come vada rovesciata l’idea che siano una moltitudine gli immigrati che ammazzano italiane: semmai è il contrario. Stando alla banca dati citata, infatti, è vero che 57 stranieri (ripetiamo: su 571 femminicidi) hanno ucciso le compagne tutte della loro stessa nazionalità o comunque con passaporto estero. Ma i «delitti incrociati» vedono uno squilibrio inatteso.

Gli italiani che hanno assassinato una immigrata sono stati dal 2010 ad oggi 43 e gli immigrati che da 2008 hanno assassinato un’italiana sono stati (a dispetto dei titoli strillati per motivi di bottega elettorale e dei commenti politici presenti nel 40% dei casi), poco più di un terzo: 17. Cinque erano marocchini, cinque tunisini, due senegalesi, un cubano, un albanese, un bosniaco, un cileno e un egiziano. Descritti dai vicini di casa e nelle cronache con toni assai diversi da quelli su citati: «Lo straniero è socievole, gentile e gran lavoratore solo nel 35% dei casi; un buon padre e marito solo nel 18%». Quanto alle condanne, sono state tutte decisamente più alte della media rispetto al «colleghi» nostrani. Ma c’è un dettaglio in più: di quegli assassini immigrati che hanno ammazzato un’italiana «in quanto donna», abbiamo tutte ma proprio tutte le foto. Giustissimo. Nessuno, a loro, ha messo una pecetta sugli occhi. Ma perché farlo con qualche aguzzino nostrano?

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