Petrolio. Il pizzo sul pozzo in Nigeria

by Luca Manes *, il manifesto | 29 Gennaio 2017 17:16

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La Nigeria ha battuto un colpo, e che colpo, nell’intricata vicenda «OPL245». Ovvero l’immenso blocco petrolifero acquisito nel 2011 dalle oil major Eni e Shell, una sorta di Eldorado offshore dell’oro nero dal momento che le sue riserve stimate ammontano a 9,23 miliardi di barili di greggio. Venerdì si è infatti saputo che l’Alta Corte federale del Paese africano ha sospeso la licenza per «OPL245» fino a quando l’unità anti-corruzione non avrà completato le sue indagini. La notizia fa il paio con quella di circa un mese fa relativa all’accusa di frode avanzata sempre dall’unità anti-corruzione nei confronti del ministro della Giustizia fra il 2010 e il 2015, Mohammed Adoke. Quest’ultimo avrebbe giocato un ruolo di fondamentale importanza per la chiusura dell’affare, su cui aleggia l’ombra della corruzione.

Opl 245 è stato assegnato nel 1998 per 20 milioni di dollari- una frazione del suo valore attuale – alla Malabu Oil & Gas, una società segretamente di proprietà dell’allora ministro del Petrolio, Dan Etete. Come visto, il blocco è stato poi ceduto a Shell ed Eni nel 2011 in cambio di un pagamento di 1,1 miliardi di dollari, di fatto trasferiti alla Malabu invece che allo Stato nigeriano che avrebbe agito solo da passacarte. O meglio da «passacartamoneta» dalle società ad Etete e ai suoi soldali. Tra questi, uno dei fedelissimi del dittatore Sani Abacha è sempre rimasto il beneficiario occulto della Malabu ed è anch’egli indagato per frode dalle autorità nigeriane.

Se il fronte nigeriano si fa sempre più caldo, quello nostrano è ormai bollente da tempo. Negli ultimi giorni del 2016 i due pm della procura della Repubblica di Milano, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, hanno notificato la chiusura delle indagini alle due società e a undici persone fisiche, tra cui spiccano i nomi dell’attuale amministratore delegato Claudio Descalzi, del suo predecessore Paolo Scaroni e del faccendiere Luigi Bisignani, uno degli intermediari chiamati a svolgere un ruolo di primo piano nel deal. Per tutti il capo d’imputazione è pesante: corruzione internazionale.

I magistrati milanesi hanno ricostruito tutta la fitta rete di trasferimenti del denaro di Eni e Shell, inizialmente transitato per un conto londinese riconducibile al governo di Abuja, ma poi subito dispersosi in mille rivoli per andare a ingrossare, si ipotizza, i conti correnti di politici nigeriani di alto livello – forse addirittura quelli dell’ex Presidente Goodluck Jonathan – come intermediari e manager dello stesso Cane a Sei Zampe. Vale la pena rammentare che nel settembre 2014, su richiesta della procura di Milano, una corte inglese aveva riconosciuto che 523 milioni di dollari del pagamento effettuato da Shell ed Eni fossero andati a presunti «sodali dell’ presidente nigeriano Goodluck Jonathan» e quindi aveva sequestrato 84 milioni di dollari rimasti sul conto della Malabu alla JP Morgan di Londra. Altri 112 milioni di dollari versati all’intermediario nigeriano Emeka Obi sono stati successivamente bloccati su diversi conti in Svizzera.

EniI conferma che la propria affiliata in Nigeria ha ricevuto copia del provvedimento con il quale viene disposto un sequestro temporaneo della licenza «OPL 245» e fa sapere di star valutando l’impugnazione dell’atto. La compagnia ribadisce altresì la propria estraneità da possibili condotte illecite in relazione all’acquisizione del blocco «OPL 245».

Sul caso si attendono ulteriori corposi sviluppi nelle prossime settimane. Uno degli scenari ipotizzabili prevede il rinvio a giudizio di Descalzi. E qui si apre il capitolo più puramente politico di questa storia. Fu Matteo Renzi nella primavera del 2014 a scegliere Descalzi come successore di Paolo Scaroni. Una decisione difesa con fermezza poche settimane dopo la nomina formale di Descalzi, quando il caso «OPL245» scoppiò in tutta la sua virulenza. Anche nella recente intervista rilasciata a Repubblica l’ex premier ha ribadito la sua fiducia all’amministratore delegato dell’Eni.

Quindi ci dobbiamo aspettare che l’esecutivo presieduto da Paolo Gentiloni confermi gli attuali vertici societari? Non bisogna infatti dimenticare che la più grande multinazionale italiana è controllata per poco più del 30% dallo Stato tramite il ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti. Chissà che cosa pensano i grossi investitori stranieri (tra cui la statunitense Blackrock, il più grande fondo del Pianeta) che dall’inizio dell’anno si sono trovati a leggere sul Financial Times o sul New York Times articoli non proprio rassicuranti sull’esito finale di uno dei potenziali scandali di corruzione più grandi della storia.

Le realtà della società civile internazionale che da tempo seguono l’affaire «OPL245» invece esultano. «Questo è un evento storico. Generazioni di nigeriani sono stati derubati dei servizi essenziali, mentre gli uomini del petrolio si sono arricchiti a loro spese. Proprio ora che negli Usa la nuova amministrazione Trump annacqua la normativa sulla corruzione e nomina Segretario di Stato l’ex manager di un’azienda petrolifera, quanto sta accadendo in Nigeria è senza dubbio confortante», ha dichiarato il direttore di Global Witness Simon Taylor.

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