Che cos’è il Jobs Act? Tappe e attori di una controriforma / 1

Che cos’è il Jobs Act? Tappe e attori di una controriforma / 1

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La Corte costituzionale si accinge a pronunciarsi sui quesiti referendari, proposti dalla CGIL (che a sostegno ha rccolto ben tre milioni di firme di cittadini) e tesi a modificare diversi aspetti del Jobs Act, la riforma del lavoro voluta da Matteo Renzi e dal suo ministro Poletti: abrogazione delle modifiche all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, abolizione dei voucher e ripristino della responsabilità in solido tra appaltante e appaltatore.
Gli effetti della riforma del lavoro sono sotto gli occhi di tutti (licenziamenti, precariato, aumento abnorme dei voucher) e certificati dai numeri, nonostante i tentativi governativi di confondere le acque e le statistiche.
In particolare in questo momento, può essere utile riepilogare tappe e attori di questa legge.

Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dalla associazione Società INformazione e dalla sua redazione, promosso dalla CGIL, nel suo ultimo volume, il 14°, giunto da poco in libreria, contiene un Focus di approfondimento proprio sul Jobs Act e le altre similari “riforme” del lavoro in corso e già varate in Francia e in Belgio, curato da Roberto Ciccarelli.
Proponiamo qui sotto un primo brano tratto dal primo capitolo del 14° Rapporto sui diritti globali, chi ne seguiranno altri nei prossimi giorni.

Il Rapporto integrale può essere acquistato in libreria o richiesto all’editore Ediesse

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Nel marzo 2014, poco più di un mese dopo l’insediamento a palazzo Chigi di Matteo Renzi, la Commissione Europea recapitò al neo presidente del Consiglio alcune osservazioni sullo stato dell’economia italiana e sulla legge di stabilità dell’anno successivo. Nell’anno più duro della crisi si avvertiva, tuttavia, l’inizio di una crescita economica, che in seguito si è rivelata del tutto insufficiente rispetto agli auspici. La Commissione invitò il nuovo governo a una nuova riforma complessiva delle politiche economiche e sociali (Commissione Europea, 2014 a). L’allerta si trasformò in allarme nel novembre successivo, quando la Commissione confermò la preoccupazione per la bassa produttività dell’economia, l’alto debito pubblico e la bassa competitività. “Squilibri” erano stati rilevati anche sull’entrata nel mercato del lavoro e la produttività del lavoro (Commissione Europea, 2014 b).

L’insediamento del governo Renzi, autorizzato dal commissariamento di fatto della politica italiana a opera del rieletto Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, rispondeva alla crisi della maggioranza “di larghe intese” che reggeva il precedente governo Letta. Dopo l’estromissione di Forza Italia dall’ambito governativo, provocata dalla reazione di Silvio Berlusconi a una condanna definitiva in tribunale, quell’esecutivo sopravviveva grazie alla scissione in Forza Italia. L’ascesa di Renzi nel Partito Democratico, grazie alla vittoria alle primarie del dicembre 2013, ha rappresentato l’occasione per rilanciare un’agenda economica, approfittando del sostegno parlamentare che aveva assicurato la sopravvivenza al governo precedente.

Il terreno scelto dal nuovo esecutivo per dimostrare il proprio valore “riformista” fu, ancora una volta, il mercato del lavoro. Nei mesi precedenti Renzi aveva già accennato a un decreto legge di riforma del contratto a termine, prima parte di un lungo processo di revisione sostanziale del diritto del lavoro, che avrebbe portato dopo un anno e mezzo all’approvazione di una legge delega al governo denominata “Jobs Act”. Questa espressione significa Jumpstart Our Business Startups Act ed è riferita a una legge approvata negli Stati Uniti sotto la presidenza di Barack Obama nel 2012. In Italia è stata, però, applicata in maniera completamente diversa.

Il provvedimento sui contratti a termine, la forma dominante sul mercato del lavoro italiano (circa l’80% dei nuovi assunti rientra in questa categoria), fu approvato nel 2014, poco più di un anno dopo da una precedente riforma avvenuta sotto il governo “tecnico” presieduto da Mario Monti. La deregolamentazione di questo contratto – la “causalità” – rientrava tra i presupposti della politica del mercato del lavoro caldeggiata dalle istituzioni europee, convinte che una maggiore libertà del datore di lavoro di rinnovare o negare un contratto a termine fosse la condizione per favorire un aumento dell’occupazione a termine della forza lavoro, un altro modo per contribuire alla risalita del tasso di occupazione falcidiato dalla crisi. La cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 e la creazione di un nuovo contratto a tempo indeterminato definito, non senza contraddizioni, a “tutele crescenti” mirava a sfondare i confini del lavoro dipendente “fisso”, adeguandolo alle principali caratteristiche di quello a termine.

Fu così che il nuovo governo approvò la riforma del Jobs Act. L’esecutivo concepì una strategia di ampia portata, senz’altro superiore a quella praticata dalla riforma Fornero sul lavoro, in continuità sostanziale con gli orientamenti continentali dopo il 2012 e strutturalmente collegata con le politiche del lavoro in vigore dal “pacchetto Treu” in poi, approvato dal governo di centro-sinistra di Romano Prodi nel 1997.

La negazione delle tutele del lavoro, e dell’identità del lavoro stesso, sono stati i principali obiettivi di tutti i governi – di centro-sinistra e di centro-destra. Già nel 1998 l’Indice di Protezione Legale dell’Impiego (Indicator of employment protection legislation) relativo alla flessibilità in entrata registrò un calo per l’approvazione del “pacchetto Treu”, la prima misura organica che ha razionalizzato la precarietà esistente nel mercato del lavoro. L’indice, pari a 4,75 fino al 1997, calò prima al 3,63 l’anno successivo ed è stabile al 2 dal 2003 (anno della riforma Biagi). Nel 2013, ultimo anno di registrazione del dato, l’indice per i lavoratori fissi era al 2,8, quello dei lavoratori precari era al 2,7. Un andamento che segue quello dei maggiori Paesi europei (OCSE, 2016 a).

Lo scopo del Jobs Act è assicurare la massima espansione del lavoro dipendente a tempo indeterminato di natura precaria. Tende a diminuire gli indici di protezione legale anche degli assunti e lo fa con un nuovo contratto a tempo indeterminato. Questo accorgimento neutralizza il valore dei dati sulla protezione legale poiché la definizione di contratto a tempo indeterminato esclude la presenza del precariato. Com’è infatti possibile parlare ancora di precariato se la riforma tende a generalizzare per tutti i nuovi assunti il contratto a tempo indeterminato? In una scala da uno a cento, la protezione legale del lavoro dovrebbe essere il massimo. Ma così non è, come vedremo.

La riforma del Jobs Act ha modificato radicalmente il significato del concetto di precariato – cioè mancanza di un contratto a tempo indeterminato e quindi delle tutele corrispondenti – e di contratto a tempo indeterminato – il possesso di diritti standard a cui si conforma lo stesso precariato. Non si tratta di una semplice operazione linguistica: è l’applicazione di un nuovo dispositivo di governo del lavoro. La nuova riforma non porta tutte le forme contrattuali precarie all’interno dello standard unico del lavoro garantito, ma svuota energicamente il lavoro dipendente delle ultime tutele residue e moltiplica tutte le forme di lavoro precario, nero e l’inoccupazione fuori dal contratto di lavoro standard, dallo Statuto dei lavoratori e dalla legge in generale.

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LE PAROLE CHIAVE: GLI OBIETTIVI DEL JOBS ACT

L’obiettivo del Jobs Act non è diminuire il numero dei contratti precari a disposizione dell’impresa, ma orientare il mercato del lavoro nella scelta di un contratto precario più conveniente attraverso l’uso di incentivi pubblici di natura fiscale o previdenziale che possono cambiare in base alle esigenti contingenti della domanda. Non si tratta di creare nuovi posti di lavoro, contenuti a causa della bassa crescita, ma gestire il travaso da una forma contrattuale all’altra all’interno del perimetro di un mercato del lavoro dipendente ristretto, parcellizzato, precarizzato.

Il Jobs Act ha compiuto un’operazione storica: ha cancellato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e ha abolito nei fatti il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, rendendolo simile al contratto a termine. Ha incorporato la precarietà nel contratto dominante in un ordinamento sociale e del lavoro prodotto dalla legislazione del Dopoguerra. Questa incorporazione non è avvenuta in un solo colpo, né solo nel privato, considerata la notevole espansione del lavoro precario nell’ambito del lavoro pubblico.

Il Jobs Act è una razionalizzazione di processi già esistenti e una loro accelerazione.

 

(continua)



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