“Manovra da 3,4 miliardi”: ultimatum di Bruxelles all’Italia

“Manovra da 3,4 miliardi”: ultimatum di Bruxelles all’Italia

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IL DISCORSO era rimasto in sospeso, ma ora Bruxelles chiama: in tempi brevi il governo italiano deve aggiustare i conti pubblici. Servono circa 3,4 miliardi di euro, una manovra bis che vale lo 0,2 per cento del Prodotto interno lordo. La richiesta è piombata su Roma giusto la scorsa settimana e questa volta l’esecutivo non può più rinviare, dovrà mettere mano al portafoglio. Anche perché in caso contrario — la Commissione europea lo ha messo ben in chiaro nei contatti riservati delle ultime ore con il Tesoro — è pronta una procedura d’infrazione per deficit eccessivo a carico dell’Italia per il mancato rispetto della regola del debito. Un commissariamento per diversi anni sulle scelte di politica economica che il governo Gentiloni difficilmente potrà permettersi.

PRIMA del referendum la polemica tra l’allora premier Matteo Renzi e il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, era stata accesa. Troppo alto il deficit previsto in Legge di Bilancio con inevitabili ricadute negative sul debito. Sfondava la flessibilità — già generosa — segretamente concordata tra i due il 16 settembre 2016 a margine del summit di Bratislava. Ma poi Juncker, che dal suo arrivo a Bruxelles ha cercato di addolcire l’approccio dominante a base di austerità, a metà novembre aveva preferito non bocciare pubblicamente la manovra a pochi giorni dal referendum per evitare di influenzare il processo democratico interno italiano. Così l’ex premier lussemburghese aveva scelto di congelare le decisioni sui conti italiani fino a gennaio.

Ora però quello che diversi dirigenti europei hanno battezzato «il conto di Renzi » deve essere pagato. Con una manovra aggiuntiva chiamata ad aggiustare il deficit strutturale (l’indebitamento al netto delle spese una tantum) di circa di 3,4 miliardi. Secondo le previsioni economiche pubblicate lo scorso autunno da Bruxelles, infatti, il deficit italiano viaggerà intorno al 2,4 per cento del Pil, due decimali al di sopra del target concordato a Bratislava e di quello che la Commissione considera il tetto massimo per evitare una micidiale bocciatura dell’Italia da parte dell’Eurogruppo, il tavolo dei ministri delle Finanze della moneta unica dominato dai rigoristi Dijsselbloem e Schaeuble. Un giudizio questa volta condiviso da tutti a Bruxelles, dalle colombe come Juncker e il suo responsabile agli Affari economici Pierre Moscovici fino ai falchi come i vicepresidenti della Commissione Katainen e Dombrovskis. Concordi nel voler scartare il rischio di essere sconfessati dall’Eurogruppo con il risultato di far precipitare comunque l’Italia in procedura d’infrazione e di distruggere la credibilità di Juncker e dell’intera Commissione.
Oltretutto dal 4 dicembre a Bruxelles si respira delusione per le infinite aperture di credito concesse a Renzi, non solo sui conti, e non sfruttate al meglio dal governo italiano.
A Roma lo sanno, il negoziato riservato tra Padoan e Moscovici per ridurre l’entità della manovra bis è già partito, ma il governo è consapevole che questa volta la correzione dovrà esserci e più di tanto il conto non potrà essere ridotto. Oltretutto anche con l’aggiustamento del deficit strutturale nel 2017 il governo porterebbe a casa quasi 7 miliardi di flessibilità rispetto ai target concordati con la Ue lo scorso maggio, sconto che si aggiunge ai 19 miliardi sottratti al risanamento nel 2015-2016 sempre con il benestare di Juncker.
Tra l’altro la Commissione a novembre ha già fatto ampie concessioni a Roma rispetto alle regole approvate dai governi sul fronte delle spese per i migranti e per la ricostruzione delle zone colpite dal terremoto. Atteggiamento benigno per non danneggiare Renzi a pochi giorni dal referendum e non soffocare la ripresa dell’economia italiana benedetto da Angela Merkel già lo scorso agosto nelle occasioni di incontri bilaterali con l’allora premier prima a Ventotene e poi a Maranello.
Più incisiva può essere invece la trattativa sui tempi. Bruxelles — questo sì su spinta dei falchi — la scorsa settimana ha chiesto al governo italiano un chiarimento e un impegno pubblico a correggere i conti entro il primo febbraio, giorno in cui la Commissione pubblicherà le previsioni economiche di inverno con le quali intende tirare le somme sull’Italia.
Roma invece cerca di ottenere più tempo per definire un intervento che si annuncia per Gentiloni e Padoan politicamente delicato, anche se sembra difficile andare oltre il mese di marzo. Basti pensare che Katainen e Dombrovskis premevano perché l’Italia approvasse la manovra almeno in Consiglio dei ministri su due piedi, in 15 giorni, entro la fine di gennaio.
La correzione comunque sarà meno pesante dei cinque miliardi adombrati lo scorso novembre da Bruxelles. La Commissione infatti ha mantenuto la parola: dopo la vittoria del No al referendum dietro le quinte aveva fatto sapere alle istituzioni italiane che Roma sarebbe stata trattata bene se Padoan — considerato il garante della tenuta dei conti italiani — fosse diventato premier o quantomeno avesse conservato la poltrona al Tesoro. Tra l’altro nel conto presentato dall’esecutivo comunitario non sono entrati i 20 miliardi messi a disposizione dal governo per salvare Monte dei Paschi di Siena e le altre banche in difficoltà: visto che la cifra è stata autorizzata dalla Commissione europea viene considerata una spesa una tantum e non incide sul deficit strutturale.

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