Maurizio Albahari: Il domino delle frontiere che mette in crisi l’Europa

by Orsola Casagrande, 14° Rapporto sui diritti globali | 25 Gennaio 2017 8:48

Loading

Intervista con Maurizio Albahari, a cura di Orsola Casagrande, dal 14° Rapporto sui diritti globali

La demonizzazione di migranti e rifugiati si combatte nella pratica di ogni giorno, dice Maurizio Albahari, professore associato presso il Dipartimento di Antropologia e la facoltà di “Global Affairs” dell’Università di Notre Dame negli Stati Uniti, che sottolinea come l’Europa non sia messa in crisi da migranti e rifugiati, ma dalla disuguaglianza interna, dal precariato divenuto normale, dalla ricerca populistica di consenso, dalla frammentazione nazionale delle politiche migratorie e di asilo, e dalla concatenazione di frontiere materiali e digitali che generano illegalità e caos.

 

Redazione Diritti Globali: Partiamo dal tuo libro Crimes of Peace: Mediterranean Migrations at the World’s Deadliest Border. Chi sono i trafficanti di migranti e chi sono i “passeur”? Come funzionano le organizzazioni che gestiscono il traffico dei migranti?

Maurizio Albahari: I passeur (smugglers) sono contrabbandieri di persone. Per una varietà di motivi, che comunque possiamo ricondurre alla difficoltà di muoversi all’interno di un Paese o di lasciarlo (la Siria, ad esempio), o all’impossibilità di entrare legalmente in un altro, anche in qualità di rifugiati e richiedenti asilo, milioni di persone necessitano delle conoscenze, mezzi di trasporto, e supporto logistico offerti a caro prezzo dai passeur. In tal senso, questi ultimi sono dei “facilitatori” che vendono un servizio venendo incontro a una domanda. Ciò prende forma in modi che possono essere violenti e di sfruttamento della propria posizione di forza (se non di monopolio sulla mobilità in località specifiche), a danno della dignità, se non della vita, di già vulnerabili clienti. Altre volte si stabiliscono tariffe agevolate per donne e bambini, e si richiede il pagamento solo una volta che le persone siano arrivate a destinazione. Alcuni passeur agiscono per conto proprio, soprattutto su tratte brevi di mare o di terra (come a Ventimiglia). Sono talvolta rifugiati che ce l’hanno già fatta. Sappiamo anche che alcuni pescatori, in Tunisia come in Libia, si improvvisano passeur o vendono la barca a organizzazioni più grandi; e che alcune persone, in Puglia e in Lombardia come nei Balcani, offrono trasporto in automobile a prezzi esorbitanti. Per tratte più lunghe (in particolare da Libia e Egitto) o che richiedano dei documenti (contraffatti), la comunicazione con agenti portuali o di confine, viaggi in aereo, o grandi navi cargo (dalla Turchia), siamo in presenza di network organizzati, suddivisi a loro volta in segmenti e nodi che si occupano delle varie fasi del viaggio, e che a ogni passo possono imporre pagamenti addizionali.

In breve, bisogna cominciare a riconoscere che le attività di smuggling sono molto variegate, sia come profilo criminale, sia come dimensioni e raggio d’azione. La guerra al contrabbando di esseri umani, dichiarata dalle autorità nazionali e europee (a livello di retorica e pratica diplomatica, securitaria e militare), dovrebbe avere come complemento un’analisi della crescente domanda di mobilità, come anche delle molte strategie di adattamento da parte di organizzazioni ben rodate.

Il lavoro dei trafficanti di esseri umani (traffickers) non può essere inteso semplicemente come equivalente a quello dei passeur – in questo, seguo la prassi e il linguaggio di rilevanti organismi internazionali, tra cui le Nazioni Unite. Il traffico di esseri umani propriamente detto presuppone una mobilità sotto coercizione (fisica, psicologica, o legale, ad esempio quando vengono sottratti i documenti), che spesso ha come motivo ulteriore la schiavitù sessuale, il lavoro coatto nei campi, e lo sfruttamento minorile.

È chiaro che mentre talvolta migranti e rifugiati pensano di affidarsi a passeur (anche trovandone la pubblicità sui social media), questi ultimi si possono dimostrare dei trafficanti. È anche possibile, come detto sopra, che i passeur siano particolarmente violenti o maldestri, o che i trafficanti ne usino le stesse rotte. Detto questo, rimane necessario discernere la differenza fondamentale tra le due dinamiche, e ridare a migranti e rifugiati la dignità del proprio agire, giusto o sbagliato che esso sia. Altrimenti, le motivazioni collettive e le storie individuali di queste persone rischiano di scomparire dietro l’etichetta di semplici “vittime”, oggetti in balìa della tratta che aspettano solo di essere salvati.

 

RDG: Nel tuo lavoro parli in maniera molto pertinente e suggestiva di crimini di pace, con un riferimento a Franco Basaglia e a sua moglie, Franca Ongaro… Come applichi questo concetto alla migrazione?

MA: Il concetto di crimini di pace mi ha offerto un’indispensabile chiave interpretativa. Nel libro, in particolare, dedico una lunga sezione alla traduzione analitica, culturale e politica di “crimini di pace” in “crimes of peace”, riferendomi al lavoro di Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro. Essi, non da soli, cercarono di confrontarsi e lottare contro il mantenimento della violenza strutturale che prendeva forma attraverso gli ospedali psichiatrici, la psichiatria medicalizzata, e il conformismo. Il tutto in nome dell’ordine amministrativo-sociale e della salute pubblica, ma ovviamente a scapito delle persone in carne e ossa, sottoposte alla cura e alla disciplina mentale (e corporale).

Parlando di migrazioni, il concetto di crimini di pace, che con altre parole riassumo come “empirical offences of structural injustice” (violazioni empiriche di ingiustizia strutturale), vuole spostare l’attenzione analitica e politica sulla violenza di confine (compreso l’apparato di deportazione, detenzione e accordi internazionali), enfatizzandone la natura prettamente politico-legale. In questo senso, si guarda alle numerose zone grigie che caratterizzano quest’inizio di ventunesimo secolo – zone tra pace e guerra, legalità e crimine, umanitarismo e coercizione. In particolare, si guarda criticamente non solo al ruolo di criminali spregevoli e lontani (come nei crimini di guerra), ma anche alla sovranità come chiusura, implementata presumibilmente a nome e per conto dei cittadini stessi.

 

RDG: Che ruolo hanno i media, soprattutto nell’alimentare un clima di paura? Vedi una possibilità di ripresa di media alternativi?

MA: Come cittadini, ogni giorno veniamo investiti da un vortice di notizie, comunicati stampa, dichiarazioni varie, tweet istituzionali, post sui social media, eccetera. Il rischio è quello di diventare consumatori acritici di tale apparente sovrabbondanza di informazioni, e di riprodurre, nella nostra vita quotidiana, frasi e concetti che non aiutano a capire le migrazioni empiricamente, ma che producono una presunzione di conoscenza: sicché i passeur sono (tutti) trafficanti, le donne sono vittime della tratta, la lotta al traffico di esseri umani metterà fine agli arrivi, i migranti economici saranno facilmente rimpatriabili, e un’emergenza, l’emergenza immigrazione in Italia, si può considerare tale anche se dura da un quarto di secolo. Devo dire che tali dinamiche della rappresentazione hanno spesso cause sistemiche, che esulano dalla professionalità dei singoli giornalisti.

In questo scenario, i media alternativi, e anche gli approfondimenti offerti da alcune testate giornalistiche nazionali e agenzie internazionali, offrono certamente una moltitudine di canali verso una produzione della conoscenza più partecipata, democratizzata, ed empiricamente solida.

Il problema, a mio avviso, rimane comunque l’accesso a tali media e approfondimenti. Mentre il vortice mediatico e superficiale si riversa quasi per inerzia nelle case e sugli smartphone di milioni di cittadini, l’accesso ai media alternativi richiede partecipazione attiva, critica, e non casuale.

 

RDG: Vedi qualche proposta interessante e alternativa per far fronte alla demonizzazione dei migranti e profughi?

MA: A livello politico-istituzionale, spero almeno che ogni persona nata in Italia da genitori stranieri non venga più etichettata e trattata come immigrata. In tal senso, una pronta approvazione della riforma della cittadinanza sarebbe un primo passo. Preferisco soffermarmi, però, sul ruolo importante della cittadinanza attiva, nel senso lato del termine comprendente anche le comunità immigrate, i sindacati, le istituzioni locali, e l’associazionismo laico e religioso. Ogni giorno ci sono migliaia di persone che trovano tempo e risorse da dedicare all’accoglienza e alla conoscenza dei nuovi arrivati: nelle isole, nelle località portuali e costiere, nelle stazioni, presso i valichi di frontiera. Ci sono aziende, città e quartieri che vivono di nuovo con il supporto fondamentale dei rifugiati (ormai famoso il caso di Riace), e scuole che non vengono chiuse solo grazie ai loro figli; sacerdoti che ospitano in locali parrocchiali giovani musulmani; ultrà di calcio che raccolgono fondi senza per questo pensare ai rifugiati come una palla al piede. Ci sono milioni di cittadini che affidano la cura dei propri cari, siano essi anziani o bambini, alla professionalità di donne che hanno lasciato lontano i propri figli. Tutte queste persone, in silenzio ma quotidianamente, dimostrano che le politiche di chiusura non sono implementate a nome e per conto loro.

Il razzismo, la demagogia e gli stereotipi etno-religiosi esistono, e hanno, forse giustamente, notevole risalto nei media. Allo stesso tempo, la demonizzazione di migranti e rifugiati si combatte nella pratica di ogni giorno, e con la crescita di un discorso pubblico maggiormente informato, che possa contrastare stereotipi e presunte soluzioni finali.

In generale, l’Europa non è messa in crisi da migranti e rifugiati. L’Europa è messa in crisi dalla disuguaglianza interna, dal precariato divenuto normale, dalla ricerca del consenso, dalla frammentazione nazionale delle politiche migratorie e di asilo, e dalla concatenazione di frontiere materiali e digitali che, come in un domino, generano illegalità e caos.

 

RDG: L’11 settembre fornisce la “scusa perfetta” per continuare a erodere le libertà e diritti e continuare a derogare per esempio dalla Convenzione di Ginevra. Al-Qaeda, poi, era anch’esso il nemico perfetto: abbastanza invisibile per essere inafferrabile e quindi perpetuo?

MA: Uno dei paradossi delle guerre contemporanee, oramai chiamate umanitarie, è che sembrano essere concepite a tavolino – senza fare i conti, in altre parole, con la complessità delle realtà sociali, religiose, amministrative che vanno a impattare. E se i generali si rendono perfettamente conto che ogni conflitto genera prigionieri, morti, feriti e rifugiati ai quali provvedere, le decisioni a riguardo sono (o dovrebbero essere) eminentemente politiche. In realtà, da un lato, vediamo che le coalizioni internazionali si dimostrano pronte a cooperare nel momento degli attacchi militari (e spesso non fanno neanche prigionieri). Dall’altro, vediamo l’assoluta riluttanza a cooperare per farsi carico dei civili direttamente o indirettamente colpiti dalla guerra, e nell’interesse dei quali la guerra era stata legittimata.

 

RDG: Da Al-Qaeda all’ISIS, un cambiamento abbastanza netto del “nemico perfetto”. Non più così invisibile e abile mediaticamente. Quanto pesa, nella apparente facilità di reclutamento dell’ISIS, la mancanza di protagonismo e di coinvolgimento nella società in cui si è nati sentita da chi, per esempio musulmano in Europa o europeo di origine tunisina, araba, eccetera, non si sente cittadino con pieni diritti?

MA: Parliamo di un fenomeno complesso, con cause e sfaccettature che possono essere di natura geopolitica, criminale, socio-economica e psicologica. Ma è evidente che una parte considerevole dei cittadini musulmani o comunque di origine nordafricana e medio-orientale, tra cui le cosiddette seconde e terze generazioni, si sente marginalizzata sotto molti punti di vista. Pur tollerando discorsi nazionali che spesso implicano l’assimilazione, piuttosto che il pluralismo, questi cittadini si trovano comunque ad affrontare una marginalizzazione individuale e collettiva, a livello materiale come a livello di libertà di culto. Riguardo quest’ultimo punto, in particolare, l’accesso a comunità solidali e a guide morali competenti dovrebbe essere facilitato, piuttosto che stigmatizzato come dannoso per l’integrazione. Bisogna anche notare che, in aggiunta a incentivi economici e alla salvezza spirituale, lo “Stato Islamico” promette ambiziosamente l’appartenenza a una comunità locale e transnazionale insieme. Tale sarebbe potuta essere la realtà di una Unione Europea solidale, giusta, inclusiva, e coraggiosa in politica estera. Invece, a fronte di una realtà nazionale e europea sempre più frammentata, localistica, e rintanata in trincee identitarie e di comodo, i giovani (qualunque sia la loro situazione socio-economica e pratica religiosa) guardano altrove.

 

RDG: Il lavoro delle ONG, pur lodevole per molti versi, riscuote anche critiche da chi argomenta che forse si è innescata anche una “necessità” della guerra permanente per chi teoricamente dovrebbe essere contro la guerra e che invece di essa, o delle sue conseguenze, vive? È forse anche per questo che sono divenuti meno presenti e incisivi i movimenti per fermare le guerre?

MA: Il ruolo delle ONG diventa sempre più fondamentale vista la riluttanza, l’incapacità, o la negligenza degli organismi nazionali e transnazionali. Ciò vale non soltanto in zone di guerra, che i cittadini europei reputano magari lontane, ma anche (tornando ai crimini di pace) nella realtà quotidiana e vicina dei porti, dei campi agricoli, delle periferie, degli spazi che destiniamo all’accoglienza (e detenzione) dei nuovi arrivati, e perfino tra le onde del Mediterraneo, dove operano varie organizzazioni non-governative attive nel salvataggio dei rifugiati. Visto il vuoto lasciato dagli attori pubblici, tali attività sono necessarie, e pertanto encomiabili. Allo stesso tempo, bisogna continuare ad analizzare ogni situazione specifica, e di conseguenza chiedersi: cosa succede quando l’amministrazione dei diritti fondamentali viene affidata o comunque lasciata a soggetti privati? Cosa succede quando coloro che vengono assistiti diventano consumatori di un servizio, piuttosto che cittadini? C’è il rischio che le ONG, non differentemente da alcune istituzioni pubbliche, badino più al proprio sostentamento (anche attraverso la visibilità mediatica) che non ai diritti e alla dignità delle persone? E, infine, è possibile che le toppe e i palliativi tenuti insieme dalle ONG, spesso a nome di un umanitarismo superficiale, contribuiscano al mantenimento di uno status quo (violento e ingiusto) che sarebbe altrimenti intollerabile e insostenibile, soprattutto per cittadini e politici che si dicono progressisti?

 

RDG: Come definiresti le cosiddette politiche europee di “accoglienza”?

MA: Penso si possa a stento parlare di politiche europee di accoglienza, sia per quanto riguarda la frammentazione europea, sia per quanto concerne la presunta accoglienza. L’approccio europeo all’immigrazione è infatti centrato sulla dispendiosissima pretesa di contenimento degli arrivi di migranti e rifugiati (in parallelo all’aspirazione ad attrarre “talenti” e lavoratori temporanei). Concentrandoci sulle fasi che seguono l’arrivo via mare o tramite altri canali non autorizzati e letali, l’accoglienza a livello europeo ha dovuto fare i conti con la riluttanza di tantissimi Paesi a partecipare al ricollocamento delle persone arrivate in Italia e Grecia. Si sono riproposte questioni strutturali tutte da affrontare. Mentre Germania e Svezia hanno coraggiosamente e pragmaticamente accettato di esaminare le richieste di asilo di quanti (siriani ed eritrei) fossero arrivati sul proprio territorio, tantissimi altri Paesi si sono aggrappati ai regolamenti di Dublino, delegando il lavoro burocratico e umanitario a Grecia e Italia. Si è ripresentata la sfida della detenzione amministrativa e della permanenza in centri di incerta legittimazione legale, nonché la tensione tra istituzioni locali a cui viene richiesto di ricevere rifugiati, e prefetti o governo nazionale. Allo stesso tempo, abbiamo anche assistito a una crescita dell’accoglienza diffusa, e a una presa di coscienza notevole circa l’ingiustizia e la violenza inerenti al controllo delle migrazioni nella forma attuale. Non c’è però un volto più vero dell’altro nell’accoglienza europea. Ci sono gruppi politici, discorsi e persone che portano avanti idee e pratiche radicalmente differenti, le quali coesistono nelle nostre società.

Era l’agosto 2015 quando degli operai austriaci trovarono i corpi di 71 rifugiati stipati in un camion abbandonato, nei pressi dell’autostrada tra Budapest e Vienna. Qualche giorno dopo, il 4 settembre, sulla stessa autostrada abbiamo visto una colonna di rifugiati siriani e afgani che, accompagnati da cittadini europei, marciavano verso Vienna, uniti dietro una grande bandiera dell’Unione Europea. Insieme, hanno violato confini che vengono fortificati a discrezione delle autorità. Non hanno chiesto il permesso a nessuno, ma hanno preso nelle proprie mani la questione dei confini intra-europei. I diritti umani, sembrano suggerirci queste persone, non sono solo un’invocazione universalista e moraleggiante: devono diventare lingua e pratica (ovviamente non-violenta) di lotta sociale.

 

RDG: Come valuti l’accordo Unione Europea -Turchia sui profughi?

MA: Prima ancora di ogni valutazione circa la situazione in Turchia – che si parli di rifugiati o di diritto, autodeterminazione e democrazia – l’accordo è da intendersi come strumento politico di conservazione delle asimmetrie trans-mediterranee. I rifugiati siriani registrati in Turchia sono circa 2,7 milioni, a cui si aggiungono il milione in Libano, e un altro milione tra Giordania, Iraq e Nord Africa. L’Unione Europea, e i Paesi membri, hanno scelto di continuare a non condividere la responsabilità per tali rifugiati, se non tramite una transazione economica che aiuta la Turchia nell’assistenza fornita. Andando contro la propria retorica, che enfatizza la lotta ai “trafficanti” e la salvaguardia di “vite umane”, hanno deciso di non reinsediare alcun rifugiato dalla Turchia, a meno che prima altri rifugiati non rischino la vita (nelle mani dei passeur) tentando di raggiungere la Grecia per poi essere deportati in Turchia in quanto arrivati irregolarmente. Inoltre, l’accordo si è disinteressato di tutti gli altri rifugiati presenti in Turchia (ad esempio afgani); e per mesi ha essenzialmente abbandonato migliaia di rifugiati nel limbo greco e davanti al filo spinato delle frontiere macedoni e ungheresi.

 

*****

 

Maurizio Albahari: è autore della monografia Crimes of Peace: Mediterranean Migrations at the World’s Deadliest Border, uscita nel 2015 per la University of Pennsylvania Press, nella collana “Diritti Umani”. Lavora come professore associato presso il Dipartimento di Antropologia e la facoltà di “Global Affairs”, Università di Notre Dame (Stati Uniti). Suoi articoli su umanitarismo, diritti, cittadinanza, sovranità, e sull’arrivo dei rifugiati attraverso il Mediterraneo sono stati pubblicati da riviste scientifiche quali “Anthropology Today”, “Anthropological Quarterly”, “Anthropology News”, “Social Research” e, in italiano, “InTraformazione”. Sostenendo la dimensione eminentemente pubblica della ricerca, Albahari contribuisce anche a testate internazionali quali “History News Network”, “openDemocracy”, “Mobilizing Ideas”, “Perspektif Magazine”, “Fox News” e “CNN”.

 

Post Views: 308

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2017/01/maurizio-albahari/