Marco Cappato: «Processatemi, ho accompagnato Dj Fabo a morire in Svizzera»

by Eleonora Martini, il manifesto | 1 Marzo 2017 9:09

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Si è recato da solo, senza avvocati, in via delle Fosse Ardeatine, a Milano, per autodenunciarsi presso la stazione dei carabinieri Duomo: «Ho accompagnato Dj Fabo a morire in Svizzera, sono colpevole di aiuto al suicidio». Ma ovviamente il comandante che ha raccolto la sua confessione sapeva già tutto. Marco Cappato, il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, anche stavolta ha scelto la via Radicale della disobbedienza civile, «come abbiamo sempre fatto: quarant’anni fa lo faceva Marco Pannella, oggi continua Rita Bernardini e anche io sono stato arrestato a Manchester per aver violato le leggi sulla cannabis…».

Cappato spera che il pm Tiziana Siciliano, che ha già ricevuto il verbale di deposizione, decida di incriminarlo, anche se rischia da 5 a 12 di carcere. «Ho fatto mettere a verbale dai carabinieri che siamo intenzionati ad aiutare altre due persone, l’una materialmente e l’altra economicamente. Entrambe hanno già l’appuntamento con i medici della clinica Dignitas. Deve essere chiaro che questa nostra attività continuerà fino a quando non saremo fermati».

Qualcuno potrebbe pensare di accusarla anche di istigazione al suicidio?

Beh quello proprio no, è fuori discussione. Anzi, semmai ho la presunzione di credere che l’incontro con l’Associazione Luca Coscioni gli abbia fatto venire voglia di resistere qualche settimana in più, per attendere una risposta dal presidente Mattarella o seguire cosa avveniva in parlamento…

Fabiano Antoniani ha trasformato la sua necessità in lotta politica… è così?

Sì, e comunque è stato anche felice di sentire raccontata la propria vita: l’India, la musica, le amicizie, l’amore, il fatto che la sua fosse stata una vita di grande felicità e soddisfazione… Se c’era una dissuasione possibile, per un uomo così, non era certo di mostrargli pietà nel tentativo di convincerlo a resistere. Questa lotta politica che ha scelto di portare avanti nelle ultime settimane è stata una ragione di vita. D’altronde se ha chiesto a me di accompagnarlo non è perché non avrebbe potuto trovare qualcuno che guidasse, come ho fatto io, la sua auto fino a Zurigo.

Ma il suo aiuto al suicidio di Antoniani è stato, semmai, commesso in Svizzera. O no?

Una buona parte dei fatti è avvenuta in Italia e senza il mio aiuto sul territorio italiano, oggi Fabiano sarebbe ancora in quella condizione in cui non voleva più essere. Dunque spero di poter affrontare un processo per aver violato le leggi italiane in merito. Perché se così non fosse – se lo Stato farà ancora finta di nulla per quieto vivere, rinunciando a perseguirmi – significherebbe accettare la discriminazione tra coloro che sono nelle condizioni fisiche ed economiche di potersi recare all’estero per ottenere una buona morte e coloro che sono costretti a gettarsi giù da una finestra.

Anche perché il nostro obiettivo non è aiutare la gente ad andare in Svizzera, né è tenere alta l’attenzione su questi temi. L’obiettivo di noi Radicali è portare lo Stato italiano ad un’assunzione di responsabilità nei confronti di migliaia di malati terminali costretti alla clandestinità anche nella morte. Persone che non possono far valere i loro diritti perché hanno un difetto: non si vedono, non possono scendere in strada, riempire le piazze, bloccare il traffico e le stazioni per giorni o settimane come fanno altri. Se non venissi incriminato, sarebbe in ogni caso un precedente, una sorta di depenalizzazione di fatto.

Non è la prima volta che l’associazione Coscioni aiuta un aspirante suicida a recarsi in Svizzera, unico Paese europeo che accetta cittadini non residenti, non è vero?

Nel 2013 accompagnai Piera Franchini, una donna che aveva un cancro al fegato e poche settimane di vita, però tornò indietro perché il dispositivo eutanasico che le avevano preparato non le piacque. Nel caso di Dominique Velati invece, facemmo soltanto il gesto simbolico di pagarle il viaggio in treno verso Zurigo. Attualmente, ci sono altre persone in attesa di essere aiutate, con due stiamo già programmando il nostro aiuto, materiale o solo economico. Sul nostro sito inoltre abbiamo pubblicato, alla luce del sole, le indicazioni utili per ottenere il suicidio assistito in Svizzera. Anche questo è un aiuto sistematico e strutturale che noi forniamo, violando la legge italiana.

In un eventuale processo, quale obiettivo vi prefiggete?

Credo che sarebbe una grande occasione perché io credo che anche attualmente i principi costituzionali siano prevalenti, come è stato per l’interruzione delle terapie, nei casi di Eluana Englaro e Piero Welby. In questo caso naturalmente è più difficile evidenziare il nesso tra l’aiuto al suicidio e la garanzia costituzionale di autodeterminazione e di libertà individuale. Ma io spero che ci sia la possibilità di dimostrare davanti ai giudici che questo nesso c’è. E che, anzi, è arrivato il momento di avere buone regole sul fine vita, proprio per salvaguardare coloro che nella clandestinità possono essere uccisi contro la loro volontà.

Fabiano Antoniani non voleva più ascoltare musica – che per lui era la vita – perché lo avrebbe fatto soffrire troppo, in quel suo corpo ingabbiato. Quanto è stato difficile per Dj Fabo affrontare questo ultimo viaggio?

Molto. Si immagini: sballottolato per cinque ore in macchina, senza poter vedere… Aveva paura che ci fermassero, che non ci facessero passare. E pure io in realtà ne avevo, anche se tentavo di rassicurarlo. Avevo paura anche solo di un controllo, che ci avrebbe fatto perdere del tempo, e lui non avrebbe resistito altre ore in quelle condizioni. Avrei dovuto portarlo indietro. Poi, più tardi, nella clinica di Dignitas, ha avuto paura di non riuscire a mordere quel pulsante, una specie di mouse che gli avevano posizionato davanti alla bocca ma che lui non poteva vedere. Era fermamente intenzionato a compiere quel suo gesto. Lo ha ripetuto anche ai medici che gli hanno chiesto, per l’ennesima volta, se non volesse ripensarci, poco prima di azionare il pulsante.

Maria Antonietta Farina, vedova di Luca Coscioni, l’ha criticata per aver portato Dj Fabo in Svizzera e non aver invece seguito la cosiddetta «via italiana», quella usata con Piergiorgio Welby: l’interruzione delle cure, della respirazione e della nutrizione artificiale. Cosa risponde?

Beh, mi fa piacere che si citi il caso Welby che, come lei ricorderà, fu seguito appunto dalla nostra associazione. Rispondo che la «via italiana» funziona se trovi intanto un medico disponibile. Ma in questo caso noi avremmo anche avuto dei medici consenzienti a staccare i macchinari. Fabiano però poteva respirare a lungo senza respiratore, perché aveva un residuo di autonomia polmonare. Staccando il macchinario, non sarebbe morto nel giro di venti minuti come è successo a Piergiorgio Welby. Avrebbe invece cominciato a stare male, fino poi a morire, dopo parecchi giorni. Ovviamente gli avevamo proposto questa opzione per ben due volte, ma lui ha rifiutato. D’altronde come si può non capirlo? Ha scelto di morire velocemente invece che molto molto lentamente. Da un punto di vista etico, cosa cambia?

Questo «regalo» che ha fatto Dj Fabo all’Italia, rendendo pubblica la sua storia, potrebbe aver aperto un piccolo spiraglio per la legge di iniziativa popolare che avete depositato alla Camera con oltre 67 mila firme raccolte?

Credo che dovremo aspettare ormai la prossima legislatura.

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