Per la Corte dei conti non tornano i conti di Padoan

Per la Corte dei conti non tornano i conti di Padoan

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Ridurre i bonus e le agevolazioni. E anche le tasse ma solo a condizione di ridurre la spesa. Lo sostiene la Corte dei conti che indica un sentiero stretto, e molto austero, a un paese strangolato da un cuneo fiscale di 10 punti percentuali più elevato rispetto al resto d’Europa. E le «privatizzazioni» non servono a diminuire il debito pubblico, il secondo più alto dopo quello greco. Non è detto che le dismissioni del patrimonio pubblico possano avere effetti «determinanti nel breve-medio periodo. In un contesto di crescita moderata, riduzioni rapide del debito potrebbero essere eccessivamente costose». Non male, come uscita, proprio nelle ore in cui il ministro dell’Economia Padoan ha rilanciato la ricetta più classica dello stato privatizzatore. L’alternativa è tagliare la spesa con la mitica «spending review» da tutti promessa, da nessuno realizzata. È l’immagine di un’economia ostaggio del dilemma del prigioniero.

Il rapporto 2017 sulla finanza pubblica della Corte dei Conti sostiene che le tasse sono aumentate: «il 49% prelevato a titolo di contributi (su imprenditore e lavoratore) e di imposte (a carico del lavoratore) eccede di ben 10 punti l’onere che si registra mediamente nel resto d’Europa. dipendenti hanno trattenute sulla busta paga pari a poco più della metà di quanto versa il datore di lavoro. Per gli imprenditori il total tax rate che grava su un’impresa di medie dimensioni ammonta – tra oneri societari, contributivi, per tasse e imposte indirette – al 64,8% e, in questo caso, «eccede di quasi 25 punti l’onere per l’omologo imprenditore dell’area Ue». I costi di adempimento degli obblighi tributari che affronta il medio imprenditore sono significativi: 269 ore lavorative, il 55% in più di quanto richiesto in altri paesi. Per la Corte dei Conti «un’esposizione tributaria tanto marcato non aiuta il contrasto all’economia sommersa e la lotta all’evasione».

Numeri che smentiscono Renzi quando sostiene che «per la prima volta la sinistra ha abbassato le tasse». Le tasse, in effetti, Renzi le ha abbassate: ai proprietari della prima casa, compresi quelli che hanno case di lusso o castelli. Come Berlusconi. E poi, con una pioggia di bonus: ad esempio l’imposta sul reddito delle società (Ires): l’aliquota è passata dal 27,5 al 24% per oltre 700 mila società di capitali, con un risparmio di 3,9 miliardi di euro. Senza contare i quasi 9 miliardi per il bonus Irpef degli 80 euro al lavoro dipendente tra gli 8 e i 26 mila euro. Ma sul cuneo fiscale, ovvero il rapporto tra il costo del lavoro le imposte e le tasse, nulla. E i magistrati contabili lo hanno registrato.

La direttrice dell’Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, in audizione presso la commissione Finanze della Camera, ieri ha confermato che sono stati recuperati 19 miliardi dall’evasione fiscale, di cui 13,7 miliardi da versamenti diretti, cioè da pagamenti che non hanno richiesto l’attivazione di procedure coattive. Per Orlandi è il «maggiore risultato mai conseguito dall’istituzione». Anche su questo punto la corte dei conti ha invitato a essere realisti. Una politica fiscale non può fare affidamento su questo gettito perché l’importo può cambiare sensibilmente, anno dopo anno. Anche se le tecniche di recupero sono state perfezionate, sebbene in misura macroscopicamente inferiore rispetto all’evasione complessiva stimata, non esiste certezza sulla sua «strutturalità». Al centro resta sempre l’esigenza di diminuire il carico fiscale sul lavoro e il capitale. Un’esposizione tributaria così alta, per la Corte, «non aiuta il contrasto all’economia sommersa e alla lotta all’evasione e non pone i presupposti per una redistribuzione del prelievo».
La Corte dei conti riconosce che, almeno dal 2016, la crescita esiste, anche se va aggiunto che i suoi effetti sono a dir poco disuguali. E mette il dito su un’altra preoccupazione di Padoan: gli investimenti. Come ai tempi di Renzi, il ministro dell’economia continua a ripetere che gli investimenti sono il «pilastro della strategia economica del governo e continueranno come continuerà il consolidamento dei conti affiancato dal sostegno al reddito e all’occupazione». Questo solfeggio è un gesticolare a vuoto.

La Corte dei conti mette benzina sul fuoco quando si dice «preoccupata» per il calo degli investimenti che, a cascata, potrebbe causare una violazione «dell’apposita clausola invocata dal governo per ottenere margini di flessibilità». La clausola sulla quale Renzi e Padoan si sono battuti per ottenere 19 miliardi dai custodi europei dell’austerità. E che adesso rischiano di dovere restituire. Se non si farà la «manovrina» da 3,4 miliardi. O se gli investimenti non cresceranno, mentre l’austerità perdura. La crisi mostra la corda.

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