Turchia. Il racconto dei professori di Izmir e Diyarbakir, epurati dall’Università

Turchia. Il racconto dei professori di Izmir e Diyarbakir, epurati dall’Università

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Turchia. Il racconto dei professori di Izmir e Diyarbakir che hanno perso il lavoro per aver sottoscritto un appello: cinquemila licenziati, mille indagati

Nei bar di Mardin giovani e anziani si siedono ai tavoli bevendo thé caldo. Parlano di politica e giocano a Tavla. Strategia, fortuna, due dadi e 15 pedine. L’obiettivo è bloccare i pezzi dell’avversario per crearsi un vantaggio strategico e vincere. Nella partita tra Erdogan e la società civile, una delle pedine è quella delle università.

«CI HANNO LICENZIATO senza alcuna giustificazione, bloccato i passaporti e privato della possibilità di lavorare in qualsiasi ambito del settore pubblico: non abbiamo un futuro», le parole di Remezan Alan, professore di letteratura e critica letteraria curda all’università di Mardin. Sono le stesse parole di quasi 5mila tra professori, ricercatori e assistenti espulsi senza possibilità di difesa. «Non ci possiamo rivolgere ad alcuna Corte, attualmente su di noi c’è un’indagine tesa a capire se siamo colpevoli o meno – continua il professore. Il Governo la prolunga all’infinito, bloccandoci ogni possibilità di ricorso». La pedina del Tavla rimane al lato del tavolo da gioco impossibilitata a rientrare. Per appellarsi alla Corte europea dei diritti umani è infatti necessario passare dai tribunali di Ankara, ma le continue proroghe sono un ostacolo insuperabile.

«IL 24 MARZO 2016 sono stato chiamato a difendere le mie opinioni e il mio operato davanti a una commissione interna dell’università» dice Serdar Takin, che insegnava filosofia alla Ege University di Izmir e lo scorso gennaio è stato licenziato. «Contemporaneamente all’indagine interna è iniziato un altro procedimento: l’accusa da parte dell’ufficio del procuratore era propaganda terroristica». 1.128 accademici, tra cui Takin, hanno firmato nel gennaio 2016 una petizione chiamata «Non saremo parte di questo crimine». Una presa di posizione sull’operato dell’esercito turco nell’est del paese a maggioranza curda. «Erdogan ci ha attaccato immediatamente con un discorso pubblico, definendoci supporter del terrorismo», dice l’ex professore, senza più la possibilità di provvedere economicamente alla sua famiglia. La pedina è senza voce, costretta tra le maglie di una narrazione di parte. «Cercano di disonorarci. Ci chiamano terroristi. Le televisioni e i giornali omettono i fatti o li stravolgono».
Il professore Remezan Alan sorride mentre sorseggia il suo thé nella città vecchia di Mardin. «Ogni aspetto della società – prosegue – ha subito un cambiamento in negativo e il mondo accademico è solo una parte di questo». Il professore di letteratura curda si mostra scettico nei confronti di un governo che si è mosso in modo pragmatico. «Hanno proceduto per step, volevano più potere e hanno utilizzato i bisogni dei vari gruppi religiosi ed etnici per ottenere vantaggi elettorali». Dal 2002 (anno in cui l’Akp ha vinto le elezioni) al 2011 Ankara ha aperto gradualmente le porte alle istanze liberali.

«C’È STATO UN MOMENTO in cui noi curdi abbiamo avuto più spazio di manovra, costruito università e dipartimenti per lo studio della nostra lingua madre», Ahmed, nome di fantasia, è un ricercatore dell’università di Diyarbakir. «Dal 2011 al 2014 è stato il nostro periodo d’oro. I master per lo studio del curdo sono stati presi d’assalto, le richieste superavano di 20 volte la media degli altri corsi». Ahmed continua il suo lavoro all’interno dell’università, ha cambiato tesi di dottorato, ora non si parla più di lingua e cultura. «Nel 2014, nel giro di un mese, le posizioni del Governo sulle università sono radicalmente mutate – continua il ricercatore – È cominciata una stretta senza precedenti». Un percorso la cui ultima tappa è arrivata a fine luglio 2016. «Se prima dello stato di emergenza avremmo potuto fare ricorso contro i provvedimenti di licenziamento, adesso è impossibile. Non troviamo neanche avvocati disposti a difenderci», racconta la professoressa Zarrin. Insegnava filosofia islamica alla Ege University, nel gennaio del 2017 il suo nome è apparso sulla Gazzetta ufficiale. Licenziata senza giustificazione.

Ma questo clima di incertezza colpisce anche chi non è stato licenziato. Ercan è un ricercatore alla Izmir Technology University: «Il nostro futuro non è chiaro, la paura è tangibile. Con questa pressione com’è possibile continuare a lavorare? Siamo costretti a guardarci le spalle». Tra le aule e i banchi delle università turche serpeggia la diffidenza, la tensione si trasmette. «Non parla più nessuno, basta una voce per essere denunciati. Le amministrazioni cavalcano questa situazione mandando email in cui ci chiedono apertamente di fare i nomi di possibili oppositori», conclude Ahmed .

DA IZMIR AD ANKARA, passando per Mardin e Diyarbakir, le voci degli accademici trovano comunque il modo di ricompattarsi, creando reti di appoggio. «Ogni primo venerdì del mese ci riuniamo nell’università della solidarietà di Izmir», ci racconta Ercan. «Gli accademici licenziati danno lezioni, mentre una folla di studenti si accalca alle porte per guadagnare le ultime sedie rimaste». Nonostante sia la paura il sentimento predominante, «riceviamo il sostegno dei colleghi in molte forme», conclude Serdar Takin. Anche il professore Remezan Alan conferma l’esistenza di un network tra accademici, aggiungendo che «noi curdi durante la storia abbiamo imparato a studiare da autodidatti, ed è quello che farò anche in futuro. In fondo mi bastano una penna e un libro». La pedina del Tavla rimane sospesa all’angolo del tavolo da gioco, mentre la partita continua. «Ho speranza, possiamo cambiare la situazione. Possiamo creare nuove aree e nuovi canali per esprimerci, sfuggendo al controllo e diffondendo le nostre idee». Ercan è deciso, la pedina si può sbloccare.

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