Ismail Haniyeh, nuovo leader di Hamas

Ismail Haniyeh, nuovo leader di Hamas

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Davanti a lui ha sfide importanti come mediare tra l’ala politica e quella militare del movimento e rompere l’isolamento di Gaza. Prosegue lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane

GERUSALEMME. Ismail Haniyeh è il nuovo leader del movimento islamico Hamas. La scelta fatta dal Consiglio della Shura afferma la centralità della Striscia di Gaza per il gruppo dirigente del movimento islamico dopo gli anni di guida prima da Amman, poi da Damasco e infine da Doha da parte del leader uscente Khaled Mashaal. Haniyeh, per anni premier a Gaza, rimarrà nella Striscia dove sarà affiancato da Yahya Sinwar, uno dei fondatori del braccio armato del movimento, eletto qualche mese fa a capo di Hamas nella Striscia.

Flessibile in politica ma ben considerato dal braccio armato, Haniyeh farà da ponte nel movimento tra le correnti più radicali, che fanno riferimento a Sinwar e all’ex ministro degli esteri Mahmoud Zahar, e quelle considerate più pragmatiche, in apparenza maggioritarie, che hanno avviato il percorso che ha portato a inizio settimana all’annuncio del nuovo Statuto di Hamas, più “moderato” rispetto a quello del 1988, alla presa di distanza dall’organizzazione-madre dei Fratelli musulmani e all’accettazione della nascita di uno Stato palestinese solo nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza, senza però riconoscere formalmente l’esistenza di Israele e rinunciare alla lotta armata. Un passo bocciato subito da Israele e ignorato dai governi occidentali che, peraltro, non ha raccolto l’approvazione dell’altra organizzazione islamista palestinese, il Jihad islami (fondata all’inizio degli anni Ottanta sulla scia della rivoluzione islamica in Iran), che si dice “preoccupata” dalla nuova Carta di Hamas e respinge con forza la soluzione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Secondo il Jihad islami la via intrapresa da Hamas porterà all’impasse e a “mezze-soluzioni” per la questione palestinese.

Haniyeh è chiamato ad avviare relazioni più distese con il regime egiziano di Abdel Fattah al Sisi che partecipa attivamente al blocco di Gaza che Israele attua da quando Hamas nel 2007 ha preso il potere nel piccolo lembo di terra palestinese. E forse sarà costretto a un compromesso anche con gli avversari di Fatah per frenare il peggioramento delle condizioni di vita per i due milioni di abitanti di Gaza, aggravato delle recenti decisioni prese dal presidente Abu Mazen, come il taglio del 30% del sussidio mensile per decine di migliaia di ex dipendenti dell’Anp e la fine del pagamento della bolletta energetica della Striscia.

Intanto è giunto al ventunesimo giorno il digiuno di protesta per circa 1.500 prigionieri politici palestinesi che dal 17 aprile chiedono migliori condizioni di vita nelle carceri israeliane e la fine della pratica della detenzione amministrativa (arresto senza processo). Secondo Israele lo sciopero della fame, promosso dal leader di Fatah Marwan Barghouti, ora in isolamento, non ha avuto successo perché alcune centinaia di detenuti avrebbero messo fine alla protesta. I palestinesi smentiscono e, al contrario, riferiscono che ogni giorno che passa altri prigionieri si uniscono al digiuno e che le rinunce sono limitate. In Cisgiordania è stata proclamata una “Settimana di Rabbia” in reazione alla notizia diffusa due giorni fa dal quotidiano israeliano Haaretz circa l’intenzione delle autorità carcerarie di impiegare dottori stranieri, evidentemente privi di scrupoli deontologici ed etici, per procedere alla nutrizione forzata dei prigionieri, in modo da aggirare l’associazione dei medici israeliani che si rifiuta di applicare tale pratica vietata dalle risoluzioni internazionali. La Dichiarazione di Malta del 1991 considera l’alimentazione forzata una forma di tortura.

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