Mille giorni prigioniere di Boko Haram. 82 liberate, ne mancano ancora 113

Mille giorni prigioniere di Boko Haram. 82 liberate, ne mancano ancora 113

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ABUJA (Nigeria) Si muovono ancora in fila indiana. Silenziose. Rispettose. Per 1.100 giorni son sopravvissute così e adesso non è facile tornare a vivere. Piedi scalzi, smagrite, la canottiera della Croce rossa sulle gonne colorate. Una delle 82 ha un velo grigio, la smorfia più ingrigita dello sguardo, in braccio due occhi infagottati in una cotonina rosa: tutti scrutano quella creatura, avrà meno di due anni, un lascito di Boko Haram. La ragazza scende dall’elicottero Naf558 e lo sa: va bene, grazie dell’accoglienza sulla pista dell’aeroporto, thank you mister president e pure Michelle Obama e Malala e il mondo che ha fatto il tifo, ma da oggi chi mi salverà dalla vergogna? Sarà anche lei «annoba», una contaminata. Da evitare per l’enorme colpa d’avere figliato in quel modo. C’è libertà e libertà: sulla pista di Abuja alla fine son lacrime e abbracci, cibo quanto se ne vuole. Una ha la gamba amputata, «sono stati i bombardamenti dell’aviazione nigeriana». Un’altra è senza una mano, per un’infezione mai curata. Inghiottite dal jihad nella scuola di Chibok, cristiane e musulmane, tutte risputate con addosso la peggiore delle ferite per un’adolescente — non sposarsi mai più — e il sospetto dei padri, dei villaggi, d’un intero Paese: e se si fossero radicalizzate anche loro? «Ridatele subito alle loro famiglie», raccomanda Amnesty, «il governo non le sottoponga a lunghe investigazioni per avere informazioni».

Ci sono voluti quattro mesi di mediazione, per salvarle. Prima gli svizzeri, poi la Croce rossa. Un convoglio di nove camion spediti nella boscaglia la sera di venerdì, «vietato presentarsi con una scorta armata», la consegna alle cinque del pomeriggio, la prima notte da libere nella caserma di Banki, un immenso campo profughi ai confini del Camerun, infine sei elicotteri e la partenza all’alba di ieri per Maiduguri, la capitale della guerra a Boko Haram. A prendersi il merito della liberazione è naturalmente Buhari, il presidente, che avrebbe lasciato il Paese delegando al suo vice l’onore di riabbracciare a palazzo le 82 ricomparse. «Gli stessi soldati nigeriani che scappavano come polli sotto Goodluck Jonathan — dice la sua portavoce, irridendo il predecessore —, ora ruggiscono come leoni!»: lo scontro con Boko Haram è «alla fase finale», mancano «solo 1.300 km quadrati di foresta da liberare»… Come no. In realtà, il prezzo del riscatto è la scarcerazione d’un bel po’ di jihadisti, ultima richiesta dopo 44 milioni di euro mai versati, assieme all’abilità di sfruttare un rapimento diventato più d’altri un crimine internazionale. E 20mila morti, 2 milioni e mezzo di sfollati spiegano che la guerra al Califfato sarà ancora lunga. «Questa liberazione è una gran bella notizia», commenta Laura Boldrini, presidente della Camera, che atterra ad Abuja quasi in contemporanea con le 82 ragazze, proprio per una missione mirata sulla tratta dei migranti e sulle vittime del terrorismo: «Possiamo solo immaginare quel che avranno subito in questi anni di prigionia. Il loro reinserimento sarà lungo e difficile. Ora non dimentichiamoci delle altre ancora in mano ai jihadisti».

Già, le altre. Qualcuna, ammazzata. Qualche vergine, venduta per 10 euro. Molte, frustate se non recitano bene il Corano. A grappoli, scappate o rilasciate: ne erano già tornate a casa più d’una cinquantina, tiene il conto il comitato #bringbackourgirls , ne mancano ancora 113. La trattativa sarà lunga. Venerdì Abubakar Shehau, l’aspirante califfo locale, ha fatto sapere di voler altri ostaggi e possibilmente occidentali. «Boko Haram continua a rapire ragazze — spiega Makmid Kamara, di Amnesty —, ma molti sequestri non finiscono sui media. Sono diventati una cosa normale, le famiglie non ci sperano neanche più…». C’è un pastore protestante, Enoch Mark, a guardare in tv le 82 liberate. È costretto a essere felice: «Ho due figlie sparite. Da anni. E non ne so più nulla».

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