Corbyn contro tutti: nazionalizzazioni soft e sì alla Nato, ma il Labour cresce

Corbyn contro tutti: nazionalizzazioni soft e sì alla Nato, ma il Labour cresce

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LONDRA. Lo scorso 10 maggio, la bozza del manifesto elettorale del Labour finiva in mano alla stampa. La fuga di notizie sul programma elettorale per le prossime politiche dell’8 giugno proprio il giorno prima che i vertici si riunissero per approvarne le linee guida dimostra – se mai ce ne fosse stato ulteriore bisogno – il permanere ostinato nel partito stesso di una chiara propensione all’autolesionismo. Ma anziché dare il senso di caos e tregenda interni su cui i media di centrodestra martellano con robotica regolarità, hanno prematuramente diffuso delle misure di nazionalizzazione soft che sembrano incontrare il favore dei cittadini. Il documento è piaciuto perfino a Polly Toynbee che, assieme a Jonathan Freedland, guida il drappello di guastatori che da quasi due anni il Guardian ha sguinzagliato dietro al mite Jeremy Corbyn.

Il manifesto vero e proprio dovrebbe uscire a giorni. Finora, l’obiettivo dell’ufficio stampa di Corbyn, diretto dall’ex commentatore politico dello stesso Guardian, Seumas Milne, è quello di insistere su delle policies precise e possibilmente sostenibili da opporre al ritratto d’incompetente-relitto-degli-anni-Settanta regolarmente affibbiato al leader laburista. A giudicare almeno dai passaggi televisivi, il potenziale per un’esplosione non controllata di Corbyn-mania da qui all’8 giugno sembrerebbe esserci. Il personaggio è troppo amabile, la sua immediatezza lontana anni-luce dal traffichio cinico da Pr nel quale si sono formate le generazioni post New Labour. Durante un breve collegamento in diretta televisiva, ha esordito rivolgendosi ai sostenitori con le spalle alla telecamera: classico errore di chi è abituato a comunicare con persone reali. Inoltre, l’uomo ha dalla sua quarant’anni di politica sul territorio ed è capace di intrattenersi a parlare di qualsiasi cosa con chiunque: un vantaggio rispetto all’ingessatura di una Theresa May, accompagnata ad ogni passaggio televisivo da una claque di valletti. Per tacere del sottile disagio che non riesce a dissimulare ogni volta che l’attenzione di occhi e obiettivi sono su di lei mentre parla con «la gente».

Le deficienze mediatiche della leader si sommano alla campagna dei Tory incistata sulla questione Brexit e sulla difesa dei soliti vaghi valori britannici, senza cioè fornire una coerente alternativa alle proposte Labour che vadano al di là di qualche posa a tutela dei consumatori. Ce n’è abbastanza per turbare i sonni di Lynton Crosby, sottopagato consulente e stratega del cosiddetto Theresa May’s Team. L’unica proposta chiara fatta finora dai Tories è quella di un tetto alle bollette delle utenze domestiche, tra l’altro soffiata da quelle del Labour di Ed Miliband, sconfitto nel 2015.

Il Labour, pur staccato ancora brutalmente dai Tories, sta tornando ai suoi livelli del 2015, cioè vicino al 30%. Tenendo conto della frenesia con cui la politica, nazionale e internazionale, si sta muovendo, in questo momento è il partito che risponde meglio e più prontamente alle sollecitazioni rispetto a una prima ministra che fa la voce grossa con i vertici europei tanto per far gonfiare il petto della Middle England. Anche perché le proposte Labour sulla politica estera sono altrettanto cogenti. In un intervento a Chatham House, Corbyn ha cercato di disarticolare l’immagine che fa di lui uno smidollato pacifista che farebbe «precipitare lo status del Regno Unito nel mondo», come sibila la stampa.

Ricorrendo addirittura al monito di Eisenhower sull’industrial military complex, (la citazione più a destra a portata di mano) il leader laburista ha rassicurato sulla Nato e sulla sua determinazione a difendere il paese, ma ha anche dato un taglio chiaro al vassallaggio geopolitico nei confronti di una Casa Bianca con cotanto inquilino. «Un governo Labour vorrà un rapporto forte e amichevole con gli Stati uniti. Ma non avremo paura di dire la nostra». E ancora, punzecchiando per bene il palloncino tory della strong and stable leadership: «Aspettare che aria tiri a Washington non è forte leadership. L’assecondare un’erratica amministrazione Trump non recherà stabilità».

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