Rapporto Almalaurea 2017. Laurea di classe all’università

Rapporto Almalaurea 2017. Laurea di classe all’università

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Un’università di classe, dove ci si laurea in pochi e in media un anno prima. Per una buona metà i neo-dottori vorrebbero andare all’estero, anche per cercare lavoro. Sono i risultati della XIX indagine Almalaurea sul profilo dei laureati italiani presentati ieri all’università di Parma. Il rapporto ha preso in esame oltre 272 mila laureati nell’anno solare 2016 e conferma, una volta di più, come i laureati che hanno genitori operai o impiegati esecutivi siano meno di quelli che hanno genitori imprenditori, liberi professionisti o dirigenti. I primi conseguono il titolo di primo livello (23%) e arrivano alla laurea magistrale nel 21% dei casi. Solo il 14% sono laureati magistrali a ciclo unico. I secondi sono il 34%. L’origine sociale influisce sul passaggio tra i livelli di studio: chi ha un genitore già laureato, in una posizione di classe più elevata, ha una possibilità superiore sull’opportunità di completare il percorso universitario. Un reddito maggiore permette agli studenti di cambiare regione, sostenere un affitto e i costi di una città diversa da quella di residenza. Nel 2016 questa mobilità ha continuato a scendere.

ALMALAUREA CONFERMA la propensione ridotta agli spostamenti per motivi di studio in gran parte dovuta all’impossibilità delle famiglie di contenere le spese di un’università dove le tasse sono più elevate rispetto a più della metà dei paesi Ocse dove, in molti casi, il primo ciclo degli studi è gratuito. Va tuttavia ricordato che la selezione avviene prima dell’entrata all’università. Il basso tasso d’ingresso dei diplomati all’università è un problema storico per l’Italia. La crisi lo ha aggravato: oggi l’accesso ai corsi è riservato al 37% dei diplomati, nettamente inferiore rispetto alla media dei paesi Ocse. Questo dato va letto insieme al boom anomalo dei giovani «Neet» (che non studiano, né lavorano) rispetto ad altri paesi europei registrato, da ultimo, dal rapporto Ocse «Education at a glance» 2016. Questi giovani non considerano l’istruzione terziaria un’opzione utile per sottrarsi all’inoccupazione o all’inattività. In questa cornice Almalaurea registra un movimento evidente da tempo nei nostri atenei. Chi può cerca di anticipare l’uscita dal paese e conseguire la laurea all’estero. Conseguire questo titolo permette di articolare da subito una «carriera» nel paese di emigrazione, accorciando i tempi dell’integrazione. Una tendenza che si rafforza al termine del percorso di studi (e di lavoro precario): il 49,8% dei laureati guarda oltralpe per continuare gli studi e per trovare un lavoro.

NEL 2016, IN ITALIA, ci si è laureati un anno prima e in regola con i tempi previsti: in media a 26,1 anni, in particolare nelle professioni sanitarie. Nel 2006 l’asticella era ferma a 27,1 anni. Nelle discipline giuridiche un laureato su tre termina gli studi con 4 anni di ritardo in media. Non è proprio un successo per l’università «riformata» dalla legge Berlinguer. La sua impostazione «produttivistica» mirava ad aumentare il numero dei laureati, accorciando i tempi di studio. Non è andata proprio così. Oggi, tra i paesi Ocse, l’Italia resta sempre agli ultimi posti per numero di laureati. È uno dei paradossi dell’università «professionalizzante»: avrebbe dovuto preparare forza lavoro avanzata al mercato, ma il mercato è ultra-precario e non permette di trovare facilmente un lavoro e un reddito degno di questo nome. Il tasso di occupazione dei laureati di età compresa tra i 25 e i 34 anni è il 62%. La media Ocse è venti punti superiore: l’83%. Non giova all’università «riformata» lo storico sottofinanziamento (6 miliardi di euro contro i 20 della Germania) e l’irrisorietà dei fondi per il diritto allo studio. Circa l’80% degli studenti iscritti ai corsi di laurea di primo e secondo livello non ha alcun aiuto finanziario o sostegno per le tasse d’iscrizione sotto forma di borse di studio.

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