Nella prigione dei migranti a Tripoli. «Figlio mio, non andrai mai a scuola»

by Francesco Battistini, Corriere della Sera | 29 Maggio 2017 9:44

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Mamma, mi dai il pallone? «No, Ashraf. Tu devi stare con me». Posso giocare almeno con le guardie? «No, ho paura che ti violentino». Mamma, ma quando andrò a scuola? «Mai». A Jamina la marocchina è rimasto solo Ashraf, 7 anni, e tutta sola se lo tiene tutto il giorno nel buio del capannone delle sudanesi, nel pozzo nero delle sue angosce. I materassi per terra, qualche sporta di plastica, un pallone mezzo sgonfio, mezz’ora d’aria, la puzza densa dei disperati ammassati da mesi. Guai a chi l’avvicina. Jamina non vuole andare in Europa, né tornare in Marocco: dice che vivrà per sempre qui con Ashraf, nel campo-carcere di Sikka, lungo la vecchia ferrovia di Tripoli. Ne ha viste troppe, la sua storia scuote perfino le guardie che ne hanno viste molte: abbandonata incinta da un francese, cacciata dalla famiglia, passata per la Libia con la speranza d’arrivare in Francia assieme ad Ashraf, prima è finita schiava nel Sahara di Sebha («un giorno mi hanno stuprato 36 camerunesi») e poi è stata venduta a un bordello dell’Isis a Sirte. Quando l’hanno arrestata, il figlio sempre con lei, stava in una casa di jihadisti e ha dovuto spiegare il perché. Nessuno ora sa che farne: la famiglia la disconosce, il francese è sparito, il governo marocchino non vuole riavere chi ha frequentato terroristi. «Ma lei non sa nulla del mondo — dice Adel Mustafa, il direttore —, è stata solo sfortunata». In che casella mettiamo questa donna e suo figlio? Rifugiati di guerra? Migranti economici? Gente che poteva starsene a casa sua? Oggi Jamina ha 34 anni, è disturbata e spesso straparla, un giorno si vela e l’altro si spoglia, spesso picchia il bambino per niente. «Ci vorrebbe uno psicologo. L’abbiamo chiesto all’agenzia Onu per i profughi, l’Unhcr, ma non hanno mandato nessuno. Noi scoppiamo di gente, da sei mesi non paghiamo nemmeno chi ci fornisce i pasti… Chi può occuparsene?».

Se ne occuperà l’Onu. Il bivio libico è da anni lo stesso — o la barca, o la gabbia — e se non si stoppano i barconi, si possono almeno migliorare le prigioni. Il premier Fayez al Serraj l’ha anticipato una settimana fa, l’Onu l’ha confermato domenica: la Libia non ha mai firmato la Convenzione internazionale del 1951 sui profughi e a Tripoli non c’è un Parlamento che la possa ratificare, ma così non si può più andare avanti. D’ora in poi sarà l’Unhcr a gestire almeno i centri d’accoglienza governativi (poi ce n’è una trentina in mano alle milizie, per quelli si vedrà). Perché l’Europa ha investito 400 milioni per pattugliare il mare, presidiare i confini del Sud e migliorare le prigioni, ma i soldi al momento arrivano come arrivano — delle prime quattro motovedette libiche riparate e riconsegnate dagl’italiani, una s’è già rotta quattro volte — e intanto c’è l’urgenza di sistemare come minimo 300 mila persone, 30 mila donne simili a Jamina, 20 mila bambini spesso orfani totali, la metà stuprata o malmenata: quando va bene, tutti sbarrati come bestiame in questi hangar senza luce e senz’acqua; quando va male, schiavi nelle migliaia di case gestite dai trafficanti. Ad Abusalim, cemento rovente e un’ora d’aria al giorno, «i pochi poliziotti che abbiamo non ricevono la paga da sei mesi, arrotondano con altri lavori e a volte sono violenti», riconosce il direttore Ramadan Rais. Gli sbirri sono tutti e solo uomini, anche nelle sezioni femminili: «Siamo abituati a considerare gli immigrati come nemici — spiega —. È così dall’era Gheddafi, non si cambia in poco tempo. Questi centri sono infernali, è vero, c’è la tentazione d’aprire i cancelli e far uscire tutti. Ma la soluzione sarebbe l’Unhcr? Quand’era qui, aveva funzionari locali che spendevano 10 mila dollari e ne fatturavano 50 mila. Serraj può dire quel che vuole, ma non è mai venuto a vedere come si vive qui dentro».

I centri libici sono discariche umane che nessuno vuole smaltire, differenziare, riciclare. Scabbia, epatiti, Aids. Ci trovi uno come il nigerino Yusuf Ignace, che ci chiede di farlo scappare: non è un profugo, per un anno ha fatto il cameriere a Tripoli, senza paga, e alla fine il padrone libico l’ha accompagnato e consegnato qui, «è un clandestino!». O il vecchio Fred, 68 anni, nigeriano, che piange ogni giorno: «Sono venuto in Libia solo per cercare mio figlio. È sparito mentre voleva venire in Italia, non so se è vivo. Sto qui dentro ad aspettarlo, pur di trovarlo e tornare a casa con lui». Una bambina di 3 anni è sola, senza documenti, forse ivoriana o forse del Benin. Avevano programmato di farla nascere dopo la traversata in gommone, «perché qui sanno tutti che nascere in un Paese Schengen dà diritto all’asilo — spiegano —. Ma non ha funzionato, è nata in Libia, i genitori chissà dove sono finiti». Le danno il latte in polvere per neonati, che le guardie si fanno regalare da una farmacia vicina: a tre anni, non ha diritto nemmeno a un pasto.

Francesco Battistini

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