2 giugno, festa armata

2 giugno, festa armata

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Non c’è niente di più menzognero che far sfilare civili insieme a truppa armata, tank e cacciabombardieri. È il nuovo «politicamente corretto» che accompagna l’ideologia della guerra umanitaria disseminata a partire dalla guerra Nato del 1999 e confermata in Libia soltanto sei anni fa.

Un «politicamente corretto» andato in onda, come negli ultimi anni, anche ieri 2 giugno. Come se la ripetizione delle marce trionfali dell’Occidente militarizzato, imbellettata qui e là di presenze civili, possa giustificare fino a nascondere, la sostanziale maschera della vocazione alla guerra che ci circonda.

Certo, ha ragione il presidente Sergio Mattarella: vogliamo «per le giovani generazioni un futuro di pace». Che altro?!

Ma come se, secondo il vecchio motto imperiale «para bellum», prepariamo la guerra? Perché spendiamo in armi e spese militari più di 70 milioni di euro al giorno (secondo gli ultimi dati internazionali dell’autorevole Sipri); perché raddoppia l’autorizzazione all’export di armi italiane e il governo se ne rallegra perché così “il Pil cresce”, arrivando a ben 14,6 miliardi di euro (l’85% in più rispetto al 2015), per esportazioni verso paesi come Arabia saudita, Kuwait, Turchia, Pakistan, Emirati Arabi, tutti – tanti i petro-regimi – impegnati in guerre sanguinose. Un commercio i cui effetti si faranno sentire proprio nei prossimi anni.

Ecco che la guerra si riproduce a mezzo di guerra e deve continuare. Secondo il dettato del neofita presidente statunitense Donald Trump.

Così, pendendo incredibilmente dalle sue labbra, stiamo raddoppiando, fino al 2%, le nostre spese militari per sostenere la Nato, che pericolosamente si allarga a Est a cercare nuovi conflitti; e abbiamo impegnato ben 15 miliardi (per ora) per l’acquisto di 90 cacciabombardieri F35 (che possono montare armi nucleari).

E, mentre trasformiamo la vocazione naturale di intere regioni italiane in vecchie e ammodernate servitù militari, siamo pronti alla Nuova Difesa Europea, non sostitutiva ma aggiuntiva dei costi atlantici; per una Unione europea che chiede alle aziende statali di ogni Paese di produrre armi: lì naturalmente nessuno pone vincoli di bilancio. Che invece tagliano salari, lavoro, società, giovani, sanità, scuola, servizi sociali.

E per finire, i militari italiani sono impegnati – da Mosul a Kabul – su ogni fronte aperto di guerra. Lì dove a morire sono in prima fila i civili.

Stiamo in armi a raccogliere il dividendo dei falliti conflitti precedenti che abbiamo innescato. Dalla guerra in Iraq del 1991, poi in Afghanistan – la più lunga e controproducente della storia contemporanea – fino a quella del 2003 sempre in Iraq; e poi in Libia e in Siria, e chi più ne ha più ne metta.

C’è un solo modo per festeggiare il 2 giugno, la festa della nascita della Repubblica. Rinunciare alla marcia trionfale, alla sfilata militare che strumentalmente vuole mimetizzare il macigno delle spese militari – che non preparano un «futuro di pace» – con pennellate di «civile».

Del resto è già accaduto. Nel 1976 i militari non vennero fatti sfilare per l’impegno a sostenere i terremotati del Friuli. Oggi c’è una evoluzione machiavellica e perversa: i sindaci delle zone terremotate hanno dovuto aprire la sfilata militare. Provocando gravi ed ulteriori divisioni nel cuore sconvolto del Belpaese, perché in tanti si sono rifiutati di marciare visti i risultati delle loro terre ancora sotto le macerie, dopo troppe parole e promesse.

Bene dunque hanno fatto i pacifisti a rendersi visibili, a tornare in piazza ieri a Roma, a Cagliari e a Camp Darby (Pisa-Livorno).

Perché si festeggia la nascita della Repubblica praticando e facendo viva la Costituzione repubblicana che all’articolo 11 – maltrattato, cancellato, vilipeso – dice che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. La marce trionfali militari sono senza futuro.

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