I gironi danteschi degli ammortizzatori sociali: la dura controrealtà del Jobs act

I gironi danteschi degli ammortizzatori sociali: la dura controrealtà del Jobs act

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Un girone dantesco pieno di lettere e numeri. Chiunque abbia avuto a che fare con un ufficio dell’Inps conosce le tragedie quotidiane che vi vanno in scena. Perché dietro allo storytelling del Jobs act gli ammortizzatori sociali sono rimasti un ginepraio dove districarsi è difficile, specie per chi non ha alle spalle conoscenze o un Patronato sindacale.

O chi incappa – come Concetta – nei meandri della burocrazia e deve districarsi fra certificati medici e interpretazioni di norme. E più prova a protestare più viene respinto e perde tempo.

Alla sciarada di sigle (Naspi, Disscol) corrisponde una lettera che il solerte funzionario all’ingresso consegna al malcapitato, in pratica il ventaglio copre l’intero alfabeto. Le attese variano da lettera a lettera, quelle per la Naspi sono sempre fra le più lunghe, proporzionate ai richiedenti. Nonostante la razionalizzazione pretesa da Tito Boeri gli uffici Inps – specie nelle grandi città come Torino – si sono ridotti e così sarà ancora in futuro.

Il tutto è poi lasciato alla buona fede e volontà dei funzionari, mediamente di alta qualità, ma oberati da carichi di lavoro sempre più alti: allo sportello alla mattina, sbrigare le pratiche al pomeriggio.

Il caso di Concetta è uno dei tantissimi in cui la Naspi viene erogata solo dopo lunghi controlli: il documento richiestole – il certificato medico che attesti il riacquisto della capacità lavorativa dopo la malattia al momento del licenziamento – è solo uno dei molteplici previsti da una normativa fin troppo burocratica. Diversamente alla gran parte del resto d’Europa infatti l’indennità non è automatica ma viene elargita dopo una domanda del disoccupato.

Nata – non senza difficoltà e ritardi – con il secondo decreto attuativo del Jobs act, la Naspi ha sostituito l’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) introdotta nel 2012 dalla riforma Fornero. È entrata in vigore dal 1° maggio 2015 e rispetto alla versione precedente – durata solo 2 anni e 5 mesi – e all’indennità di disoccupazione ha ridotto di molto le coperture e la sua durata.

La Naspi infatti – come ripetutamente strombazzato da Renzi – è di 24 mesi, ma solo per chi ha lavorato continuativamente negli ultimi 4 anni avendo 48 mesi di contributi previdenziali pagati. È evidente dunque che i due anni decantati dallo storytelling renziano del Jobs act sono solo sulla carta ed escludono tutti i precari con lavori discontinui, i lavoratori autonomi e la totalità dei lavoratori stagionali che fino al Jobs act invece potevano garantirsi un’indennità di durata pari ai mesi di lavoro nell’anno: tipicamente chi faceva la stagione estiva da maggio a settembre aveva un ammortizzatore per altri 5 mesi.

Al problema dei lavoratori stagionali ha ovviato temporaneamente la legge di bilancio del 2016 modificando le norme del Jobs act prevedendo un allungamento della Naspi fino a 4 mesi per i soli lavoratori del settore turistico e termale – esclusi dunque gli agrari – «con riferimento ai soli eventi di disoccupazione involontaria verificatisi nel 2016».

Gli altri due aspetti negativi dell’attuale Naspi riguardano invece il cosiddetto decalage e i contributi figurativi per il periodo di copertura.

Il primo aspetto riduce l’assegno a partire dal quarto mese di un importo pari al 3 per cento: nel caso – ipotetico – di 24 mesi significa che all’ultimo mese il disoccupato riceverà il 60 per cento in meno ovvero il 40 per cento dell’assegno iniziale. Considerato che il massimale previsto è di 1.300 euro lordi significa che l’importo finale sarà la miseria di 520 euro. Quanto invece al secondo aspetto i contributi figurativi sono tutti tarati sul massimale di assegno previsto e dunque su 1.300 euro. È chiaro che chi perde un posto di lavoro di buon livello con due anni di Naspi vede il suo montante contributivo crollare repentinamente rispetto a chi rimane al lavoro.

FONTE: Massimo Franchi, IL MANIFESTO



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