Marocco. «Giustizia sociale»: dal Rif a Rabat si allarga la protesta

Marocco. «Giustizia sociale»: dal Rif a Rabat si allarga la protesta

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Il governo promette investimenti, ma per ora non si fa vedere

Il governo marocchino prova a correre ai ripari, ma ad oggi promesse e annunci non hanno spento le proteste della regione settentrionale del Rif, berbera e montanara. Anzi, le ha fatte divampare.

Domenica tra le 12 e le 15mila persone sono scese in piazza a Rabat in solidarietà con la lotta del Rif, per chiedere il rilascio degli 86 arrestati e protestare contro corruzione, disparità economica, mancati interventi statali.

La manifestazione, indetta da sindacati e organizzazioni di base, ha attraversato i viali Hassan II e Mohammed V per terminare alla stazione di Rabat.

A sventolare non erano bandiere del Marocco ma quelle dell’Amazigh, la comunità berbera delle montagne; gli slogan cantati hanno ripreso le parole d’ordine che hanno accompagnato gli ultimi sette mesi di mobilitazione nel Rif: «Libertà, dignità e giustizia sociale», «Prigionieri liberi».

In contemporanea continuavano a manifestare le città di al-Hoceima e Imzouren, dove i manifestanti si sono scontrati con la polizia, dopo il tentativo dei poliziotti di impedire il raduno. I giovani hanno lanciato pietre, la polizia i gas lacrimogeni. In prigione restano 31 persone, delle 86 rinviate a giudizio.

Tra loro il leader del Movimento Popolare, al-Hiraq al-Shaabi, il 39enne Nasser Zefzaki, in carcere dal 29 maggio con l’accusa di «aver minato la sicurezza nazionale».

E se il Rif prosegue la sua lunga marcia – il cui ultimo tratto è cominciato a ottobre 2016 dopo la morte di un venditore di pesce, Mouhcine Fikri (ucciso da un camion della spazzatura mentre tentava di recuperare il pesce spada che la polizia aveva confiscato e gettato) – ora la protesta si sposta nel cuore del paese, a Rabat.

Un dato politico importante, che investe in pieno il governo. Finora l’esecutivo ha sottostimato le manifestazioni, i media bypassato la copertura delle proteste ormai quotidiane. Ora non può farlo più: quella in corso è la mobilitazione più partecipata e duratura dal 2011 e porta le istanze del Rif direttamente nelle stanze dei bottoni marocchine.

Il governo risponde. Dopo la fallimentare opzione repressiva, messa in campo l’ultimo mese a al-Hoceima, domenica il primo ministro El-Othmani ha annunciato lo stanziamento di 500 milioni di euro in 5 anni per le zone rurali del paese: 20.800 progetti per 12 milioni di marocchini, da nuove infrastrutture al miglioramento dei servizi pubblici.

Inoltre, ha aggiunto, visiterà il Rif «presto» per «incoraggiare progetti di sviluppo che l’esecutivo ha stabilito come risposta alle richieste della popolazione».

Nelle stesse ore arrivava la comunicazione ufficiale della prima visita di Stato del neo-eletto presidente francese Macron, in Marocco, alla corte di re Mohammed VI: in una telefonata, i due hanno sottolineato i particolari legami tra i due paesi e l’intenzione di rafforzare le relazioni economiche e politiche.

Il Rif è lontanissimo: l’annunciata delegazione governativa non è mai arrivata. Ovvia la reazione della base, una comunità che si scontra con il potere centrale da un secolo.

Storicamente emarginato, in particolare sotto Hassan II, padre dell’attuale regnante (nel 1959 represse con la violenza la sollevazione, uccidendo 10mila persone), il Rif è stata teatro di rivolte con cadenza regolare fin dall’indipendenza.

Ad accenderle negli ultimi anni sono stati gli alti livelli di disoccupazione giovanile, l’assenteismo dello Stato dopo il terremoto del 2004 che uccise ad al-Hoceima 600 persone, la radicata marginalizzazione sociale ed economica della regione (a fronte di investimenti nelle zone centrali, come il treno ad alta velocità da due milioni di dollari che collegherà Casablanca e Rabat, o come la zona industriale a Tangeri, 10 miliardi di investimenti cinesi).

E le proteste del Rif si allargano, fagocitando il generale malcontento della popolazione marocchina verso uno Stato che non ha realizzato le riforme promesse nel 2011.

FONTE: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO



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