Dal welfare al workfare. Primo sì del governo al «reddito di inclusione»: ai poveri da 190 a 485 euro

Dal welfare al workfare. Primo sì del governo al «reddito di inclusione»: ai poveri da 190 a 485 euro

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In un paese dove i poveri «assoluti» sono 4,6 milioni pari a 1 milione e 582 mila famiglie, ieri il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo che introduce in Italia una «misura nazionale di contrasto alla povertà» riservata a 660mila famiglie, di cui 560mila con figli minori. Per il cosiddetto «reddito di inclusione» saranno stanziati «2 miliardi di euro l’anno nei prossimi anni» ha sostenuto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Stando all’Ufficio parlamentare di bilancio le risorse stanziate, allo stato attuale, sarebbero 1,2 miliardi nel 2017 e 1,7 nel 2018. Le risorse restanti dovrebbero arrivare dall’unificazione di altri sussidi esistenti.

Secondo l’ufficio che ha il compito di verificare le previsioni di finanza pubblica del governo, lo stanziamento risulta insufficiente rispetto alla cifra quantificata dal «Gruppo di lavoro sul reddito minimo» del Ministero del Lavoro: tra 5 e 7 miliardi all’anno. La stessa stima è presente nel «memorandum» siglato dal governo con l’«Alleanza contro la povertà» – il cartello di associazioni e sindacati che sostengono l’istituzione del «reddito per l’inclusione sociale». «Nel decreto attuativo non sarà possibile definire i tempi della progressione graduale verso una misura pienamente universale – si legge – per necessità legate all’esigenza di reperire le adeguate coperture finanziarie». Il compito di reperirle è lasciato al governo che, con il premier Gentiloni ieri ha riconosciuto che «si tratta di un primo passo, che ne dovrà vedere ulteriori». Si vedrà dopo le elezioni, probabilmente, con un governo ancora imprecisato che dovrà considerate le arcigne esigenze dell’austerità del bilancio.

Il reddito di inclusione è un sussidio contro la povertà di ultima istanza che va da 190 euro a 485 euro. Le soglie di accesso sono pari a 6mila euro e 3mila euro di soglia Isee. La priorità nel suo riconoscimento sarà data ai nuclei con almeno un figlio minorenne o con disabilità anche se maggiorenne, a quelli con una donna in stato di gravidanza o un over50 in disoccupazione. Sarà potenziata la burocrazia che si occuperà di garantire l’accesso e il rispetto delle condizioni per beneficiare del magro sussidio. A tale fine saranno assunte 600 persone nei centri per l’impiego «che avranno il compito di fare da ponte tra chi si occupa di politiche sociali e chi di politiche dell’occupazione».

L’erogazione del «ReI» è condizionata alla prova dei mezzi e all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa finalizzato all’affrancamento dalla condizione di povertà. Chi non rispetta tali parametri si vedrà negare il sussidio. La sua «universalità», rivendicata ieri dal governo, è dunque condizionata da tre fattori: l’insufficienza del finanziamento e i tempi non chiari del suo aumento; la categorialità – una parte dei poveri assoluti e non i poveri «relativi», nè i titolari di altri sussidi come la Naspi o un altro ammortizzatore sociale per la disoccupazione involontaria; l’esame della disponibilità del soggetto ad accettare attività, non ancora chiare, per ottenere in cambio un sussidio che varia a seconda dello stato di bisogno e della numerosità del nucleo familiare. Un reddito «universale» che di «universale» ha veramente molto poco. Per come è stato impostato il Rei definisce un segmento di «poverissimi» e li isola dalla più ampia area del disagio economico e del lavoro povero e precario. ««È fondamentale – osserva l’Alleanza contro la povertà – che l’incremento delle risorse, il carattere universalistico dell’intervento, la consistenza del sostegno economico e lo sviluppo di risposte adeguate nei territori procedano di pari passo». All’approvazione definitiva mancano i pareri della Conferenza unificata e del parlamento.

FONTE: IL MANIFESTO



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